Ministero dell’istruzione nuovamente bacchettato dall’Accademia della Crusca per i troppi anglismi nei suoi documenti programmatici. Il 9 gennaio, due giorni dopo l’uscita di un nostro articolo sull’argomento, l’accademia linguistica più antica del mondo pubblicava un Comunicato (il n. 22 del Gruppo “Incipit”) dal titolo significativo (“Un glossario per il Piano Scuola 4.0”), che tra l’altro cita il nostro articolo del 7 gennaio.
Perché non spiegare il significato e il senso degli anglismi?
Il Gruppo “Incipit”, creato nel 2016 da studiosi italiani e svizzeri (tra cui Luca Serianni), ha «lo scopo di monitorare i neologismi e forestierismi incipienti, nella fase in cui si affacciano alla lingua italiana e prima che prendano piede» e «il compito di esprimere un parere sui forestierismi di nuovo arrivo impiegati nel campo della vita civile e sociale». Pur respingendo “ogni autoritarismo linguistico”, il Gruppo, «attraverso la riflessione e lo sviluppo di una migliore coscienza linguistica e civile, vuole suggerire alternative agli operatori della comunicazione e ai politici, con le relative ricadute sulla lingua d’uso comune».
Tamaro: «pomposo fraseggio atto a mascherare la fumosità degli intenti»
Sul “Piano Scuola 4.0” il Comunicato 22 va giù pesante: «Si metta in circolazione una versione del Piano “tradotta” per gli utenti comuni non specialisti, o, più semplicemente, si unisca al documento un glossario interpretativo autentico, in cui si fornisca una spiegazione univoca degli anglismi utilizzati, non solo per verificarne la necessità, l’uso appropriato e la coerenza, ma anche per renderne chiaro a tutti, operatori della scuola e cittadini, il reale contenuto del programma». E aggiunge le parole della nota scrittrice Susanna Tamaro, la quale, sulle colonne del “Corriere della Sera”, lamenta “l’eccesso di anglismi presenti nel testo”, l’“eccessiva abbondanza di termini inglesi”, il «pomposo fraseggio atto a mascherare la fumosità degli intenti».
Comprare a scatola chiusa merce d’oltreoceano
Cominciano a esser molte, insomma, le personalità del mondo della cultura che si ribellano — o per lo meno mostrano disagio o imbarazzo — di fronte al profluvio di parole d’ordine anglofone che paiono voler indorare la pillola di provvedimenti di “riforma” quantomeno discutibili, e discutibili se non altro per il fatto che appaiono calati dall’alto in nome di ideologie d’oltreoceano, espresse in inglese proprio perché d’oltreoceano. Come se il provenire d’oltreoceano fosse garanzia di perfezione, di merce ottima da acquistare ad occhi chiusi.
L’autoritarismo di chi s’impone parlando difficile
L’inglese rischia di diventare per noi italiani ciò che il latinorum è per Renzo Tramaglino nel romanzo manzoniano: uno strumento per chiudere ogni discussione, ammantando di misteriosa autorevolezza decisioni già prese a prescindere dalla giustezza e dall’utilità del loro fine. Un vero e proprio “inglesorum”, parimenti autoritario che non le dotte citazioni usate da don Abbondio per zittire gli oppressi.
A voler esser maligni, si potrebbe pensare che la scelta di usare così tante espressioni anglofone, in un piano di riforma scolastica già di per sé opinabile per i suoi contenuti, somigli molto alla tattica di chi, in fondo, non ama spiegare nel dettaglio il senso delle proprie affermazioni, ma preferisce imporle mediante l’uso di parole difficilmente comprensibili ai più, proprio per confondere la maggior parte delle persone e scoraggiarne le possibili critiche.
«La trasformazione degli ambienti di apprendimento», scrive ancora l’autorevole accademia di Firenze, «va sotto il nome di Next generation classrooms; le “azioni” sono definite Next Generation Class, Next Generation Labs; è prevista la rendicontazione di milestone e target; sono evocati i principi del Do No Significant Harm, si parla di check list, di compiti di driver dell’innovazione, mentoring, Digital board, peer learning, problem solving, multiliteracies, debate, gamification, making, blockchain, Task force Scuole, outcome».
“Inglesorum” e neolingua per modificare il pensiero?
L’Accademia della Crusca ha 440 anni; la moda di usare l’inglese negli atti politici dello Stato italiano è molto più recente, ed è segno di ingravescente sudditanza psicologica, morale, culturale. Si sta spingendo un popolo intero verso questa sudditanza, dato che, come ironicamente ricordato nel Comunicato, “nomina sunt consequentia rerum”.
Ma è casuale tutto ciò? Imponendo parole si impongono concetti, modi di pensare, stili di vita, gerarchie mentali, modelli economici. Più si semplifica e si standardizza il linguaggio, più si standardizza e si semplifica il pensiero: ben lo sanno tutti i fautori di sistemi autoritari, creatori di parole d’ordine e “neolingue” di stampo orwelliano.
Come Orwell narra, infatti, la guerra può chiamarsi pace, la schiavitù libertà, l’ignoranza forza. Così un mafioso assassino può dirsi uomo d’onore, la complicità omertà, la guerra missione di pace. Così l’aumento dei poteri del “dirigente scolastico” può dirsi “autonomia scolastica”; l’eliminazione dei diritti dei lavoratori “Jobs Act”; lo stravolgimento della Scuola italiana (e il suo adeguamento a interessi “altri”) “Buona Scuola” o “Piano Scuola 4.0”.
Tale è l’importanza delle parole (per una specie come la nostra, atta alla simbolizzazione), da poter trasformare la mente e, dunque, la realtà stessa. La loro scelta in atti politici, pertanto, non è certamente casuale, e non può non spingerci ad interrogarci sui motivi che la determinano.