Pietro Castellitto: «Matilda De Angelis è una persona con cui si può parlare di tutto. Il primo incontro con Totti? A pranzo»

Pietro Castellitto: «Matilda De Angelis è una persona con cui si può parlare di tutto. Il primo incontro con Totti? A pranzo»

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di Roberta Scorranese

L’attore si racconta: l’insofferenza dei trentenni, il pranzo con Totti. L’amore: «Con Matilda sto bene perché parliamo di tutto»

Pietro Castellitto, come sono i trent’anni?

«Sereni. Ma c’è la consapevolezza che non tutto si può fare».

Perché?

«Perché a vent’anni tutto ti sembra possibile. Sia che tu voglia fare il regista sia che tu voglia diventare albergatore. A trenta capisci che per fare qualsiasi cosa devi entrare in un “giro”».

Lei però ha cominciato a recitare a tredici anni. Il film era «Non ti muovere», regia di Sergio Castellitto, suo padre, da un romanzo di Margaret Mazzantini, sua madre.

«E tutti allora giù pesanti con i vari “è figlio di”. Qualunque cosa facessi, tutti a ricordarmi da dove venivo. Così per anni e anni ho scritto. Ho scritto tantissimo, cose mai pubblicate e nemmeno trasformate in un film. Cose mie, ricerche personali. Volevo fare qualcosa di artistico, ma facevo fatica a trovare un punto fermo».

Che cosa ha innescato poi la svolta?

«Tante persone che mi hanno guardato limpidamente, che hanno cercato in me il talento oltre il cognome. Mario Gianani, per esempio».

Il produttore di «Speravo de morì prima», la serie tv in cui lei fa Francesco Totti».

«Io ho le idee chiare, ho anche delle ambizioni. Ma, giuro, fare Totti per me è stato un onore. Totti per noi non è un essere umano, Francesco è un’icona. Lo vedi così tante volte che quando te lo trovi davanti e scopri che parla, che sorride, che si tocca i capelli, non ti pare vero».

I dettagli del primo incontro.

«A pranzo vicino a Piramide (zona del quartiere Ostiense di Roma, ndr). Io che manco spiaccico parola, lui che mi guarda e poi fa: “Ahò, se devi fa’ Totti ar cinema mo’ devi magna’”. E comincia a passarmi pasta, pane, carne. “Magna”, mi ripete. Io sto lì con la pancia piena, non mi va più niente, ma gli faccio: “France’, se me lo passi tu me magno pure er legno”».

E all’anteprima, quando lui si è visto sullo schermo con la faccia di Pietro Castellitto?

«Lo avevano invitato a vedere il primo episodio al cinema da solo con la famiglia, cioè Ilary Blasi e i figli Cristian e Chanel. A metà puntata mi manda a chiamare. Io entro in sala, sudo freddo. Ma lui ride e mi fa: “Ahò, Chanel dice che io parlo proprio così”. Gli è piaciuto. Evvai!».

Chissà l’invidia degli amici di Roma Nord.

«Il gruppo storico. Casa dei miei è dietro ai Parioli, io ho preso casa da solo un po’ lontano».

Liceo?

«Il “Falconieri”, liceo classico. Periodo epico. Un solo esempio: una volta ho azionato l’allarme antincendio facendo evacuare l’intero edificio».

Ragazzo irrequieto?

«Per usare un eufemismo. Mio padre ogni tanto si incavolava e girava per la casa dicendo “Ma dove ho sbagliato?”»

Sergio Castellitto in una delle sue migliori interpretazioni, insomma.

«Siamo quattro figli, due maschi e due femmine. Però mamma e papà ci sono stati sempre per noi. Famiglia molto unita. Litigi e discussioni, certo, ma loro due sono stati genitori perfetti. Tanto è vero che oggi quando penso a un figlio mi dico che non potrei farlo, perché penserei troppo a me stesso, non potrei mai essere come loro. Un modello autentico, fin troppo».

Mai fumato una canna?

«Be’, sì».

Ma Pietro, lei nemmeno fuma le sigarette.

«Certo, e allora? Mai fatta una canna da solo, sempre con gli amici e comunque molto di rado. Non fumo, faccio judo, con i soldi della serie su Totti mi sono comprato una piccola barca che però adesso voglio vendere».

Perché?

«Perché la uso poco, devo lavorare. Non penso tanto ai soldi, se vivessi in America adesso sarei più ricco, ma non mi importa».

Come spende i soldi?

«Cerco un po’ di sicurezza. Poter fare un viaggio o permettermi un ristorante senza ansie. Tutto qui. Ma in questo sono stato bene educato dai miei. Ha presente Massimo Ferrero?»

Ma chi, Er Viperetta?

«Proprio lui, il produttore. Quando ero piccolo una volta venne a casa nostra. Gli dissi che raccoglievo le figurine e lui mi diede cinquantamila lire. Mai visti prima tanti soldi. Mi disse: “To’, vatte a comprà er pacco intero”. Intervenne papà che prese i soldi e glieli ridiede. Non avrebbe mai permesso a un bambino di spendere così tanto tutto insieme. Ma soprattutto papà voleva che io le figurine le raccogliessi poco per volta».

E mamma Mazzantini si è mai arrabbiata?

«Allora, una volta, tornando a casa in motorino con un amico, ci fermammo e io mi feci fare un tatuaggio sulla caviglia. Lei lo vide e mi disse: “Ma che ti sei fatto? Mi pare un baffo”».

Obiezione estetica, più che etica.

«Mia madre è la persona più sincera con sé stessa che io conosca. Da lei ho imparato a fissare dentro di me un parametro di giudizio. Più questo è chiaro, meglio si riesce a scrivere».

Sì, perché lei è anche scrittore. Il suo romanzo d’esordio, «Gli iperborei», ha appena vinto il premio Opera prima al Viareggio-Rèpaci. La storia di un gruppo di ventinovenni della Roma ricca, persi in troppi soldi, troppa solitudine, troppi adulti.

«E soprattutto troppe pressioni. Prima, quando dicevo che a trent’anni arriva il disincanto, volevo dire che per la mia generazione tutto è parecchio complicato. Avvertiamo un senso di oppressione in ogni progetto. Una burocrazia che ostacola i sogni».

Energia e idee ma vi sentite prigionieri di una ragnatela di ostacoli?

«Cerco di dirlo in modo chiaro: penso che per un giovane uomo della mia età sia più difficile mettere a frutto il proprio potenziale rispetto a uomini di altri tempi. Ci sentiamo pieni di possibilità ma poi ci accorgiamo che non riusciremo mai a cambiare il mondo come lo hanno cambiato quelli prima di noi».

Eppure sembra che a lei tutto riesca bene. Regista con «I Predatori», attore, scrittore.

«Sì ma è stato il frutto di un lavoro su me stesso. Io a 21 anni ho conosciuto il fallimento».

E cioè?

«Profonda crisi. Ho cominciato a recitare da bambino, tutto mi sembrava facile. Ma non lo è. Allora a ventuno anni smisi. Mi misi a fare altro, a studiare filosofia. Pensi che a un certo punto della mia vita ho detto di voler fare il professore. Cominciai a scrivere, I Predatori l’ho girato a ventisette anni ma l’ho scritto a ventitré. La scrittura chiarisce tante cose. E sono un lettore vorace: Nietzsche, Foster Wallace, Hemingway, Fante. Solo letteratura internazionale».

La cosa migliore fatta finora?

«Il romanzo, senza dubbio».

È difficile parlare di questa generazione?

«Lo fanno i grandi, spesso usando modelli sbagliati. O ci dipingono come barboncini ammaestrati o come depravati. Io di una cosa sono certo: quando avrò cinquant’anni non mi metterò mica a scrivere di ventenni o trentenni».

Che sentimenti nutrite verso i quaranta-cinquantenni?

«Non vi guardiamo proprio».

Touchée.

«No, dai. Il punto è che, proprio perché siamo sempre raccontati dai grandi, voi pensate che noi vi odiamo, che proviamo risentimento perché ci avete tolto il futuro o cose del genere. Ma manco per sogno. Noi guardiamo a noi, ci concentriamo sui nostri casini, sui sogni. Non vi odiamo. E non so se questo sia un bene».

I ragazzi e le ragazze del romanzo sembrano sempre in fuga. Insofferenza per cosa?

«Per i valori fintamente progressisti in cui si cresce in tante famiglie con i soldi».

Non ne potete più?

«La mia famiglia non è mai stata finta. Sono cresciuto respirando un progressismo anarchico. Con spirito critico, insomma».

Ce ne vuole tanto per liberarsi dall’oppressione del «figlio d’arte»?

«Ne esci quando ti rendi conto che quella è solo un’arma nelle mani di chi ti vuole mettere in difficoltà. Paolo Maldini è figlio d’arte, ma qualcuno ha mai messo in discussione il suo talento?».

A proposito di calcio…

«José Mourinho è uno che sa far accadere le cose. E ho detto tutto».

L’attore-modello?

«Matt Damon. Perché non ha ancora fatto il film della vita. Sa farsi aspettare. Non mi chieda però il regista da cui vorrei essere diretto».

Lo faccio: il regista con cui vorrebbe lavorare?

«Sergio Leone».

Pietro…

«La mia generazione ha due punti fermi: Beppe Vessicchio e, se sei romano, Totti».

Un’amicizia bella nata girando film?

«Matilda De Angelis. È una persona con cui si può parlare di tutto».

Come vive l’amore Pietro Castellitto?

«Mi ricordo la prima volta che mi sono innamorato, alle elementari. Non le ho mai detto nulla, perché lo vivevo con un fortissimo senso di impotenza. Era doloroso. Oggi è diverso, ma, vede, io ho sempre fatto sogni di un vecchio. Anche da bambino, mica sognavo di baciarla: sognavo di portarla su un’isola deserta, di andare a cena con lei».

Vabbè ma mica sono sogni da vecchi?

«Insomma».

Di che cosa ha paura?

«Mi ha sempre spaventato l’acufene, che mi ha tormentato per anni. Mi fa paura perché quel ronzio ti inchioda al presente, ad un eterno presente che ti sembra di non poter cambiare».

E come si vede tra vent’anni?

«In un salone pieno di luce, con una camicia bianca , a parlare di lavoro con i miei fratelli».

Usciamo dal ristorante, in piena Roma Nord. Un cameriere lo ferma e gli dice: «Ahò, sei grande». Castellitto-Totti sorride (un sorriso bellissimo, montato sotto occhi verde-acqua chiaro) e risponde: «Eh, vediamo».



rscorranese@corriere.it

12 giugno 2022 (modifica il 12 giugno 2022 | 08:52)

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, 2022-06-12 20:08:00, L’attore si racconta: l’insofferenza dei trentenni, il pranzo con Totti. L’amore: «Con Matilda sto bene perché parliamo di tutto», Roberta Scorranese

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