di Valerio Cappelli
Il grande direttore a Torino per il Don Giovanni con la regia di sua figlia Chiara e un cast di giovani: «È un titolo difficilissimo, in uno strano equilibrio tra gioco e dramma. Il seduttore vive nel disordine e lo crea: sociale, morale, affettivo».
Ad ascoltarlo, sembra una delle sue lezioni in tv, intrise di cultura umanistica. Riccardo Muti lancia un appello al nuovo governo per aiutare la musica, non solo i musei. E porta, il 18 novembre al Regio di Torino, con la regia di sua figlia Chiara e una compagnia di giovani cantanti, Don Giovanni (unica sua opera prevista per il momento). Lo diresse nel 1987 e nel ’99 alla Scala con la regia di Giorgio Strehler, quindi Vienna, Salisburgo e Ravenna. «Torno a Torino dopo la felice esperienza del Così fan tutte, ho trovato un’orchestra in un’ottima situazione artistica, e collaborativa».
E’ l’opera più enigmatica, misteriosa, indecifrabile.
«E’ difficile per un regista, difficilissima sul piano musicale. Strehler, alla fine del suo spettacolo notturno, mi disse: non l’abbiamo fatto. Fece una pausa e aggiunse, ma non lo farà mai nessuno. Lui era estremo, ma certamente è un’opera impossibile. L’equilibrio è strano già dal titolo: dramma giocoso».
Quanto c’è di dramma e quanto c’è di giocoso?
«La chiave è già nell’ouverture, dove l’inizio è tragico, nella tonalità funebre di re minore, quella del Requiem di Mozart. Sembra musica dell’oltretomba, comincia come l’inferno, poi, dopo gli archi che sembrano gemere, si passa per contrasto a un allegro, un movimento veloce dove si innesca il gioco di una corsa irrefrenabile, vorticosa, di una vita inappagata e inappagabile».
Don Giovanni è stato fatto in mille modi, in carrozzina, omosessuale, con tante divagazioni psicoanalitiche…
«Lui vive nel disordine, lo vive e lo crea. Quando ci sono le tre orchestrine sul palco che suonano tre danze diverse, il Minuetto, la “Follia” e l’Alemanna, Don Giovanni dice: senza alcun ordine la danza sia. E Mozart le sovrappone l’una sull’altra, le incastra con ritmi diversi. Si crea un caos ordinato che in fondo è disordinato. Don Giovanni vuole il disordine: morale, sociale, affettivo. Non ha un obiettivo fisso, questo girovagare da una parte all’altra, questo continuo sbalzare di tonalità, evoca un personaggio che non ha pace. La cosa più grave e negativa dell’opera è un’altra».
Qual è?
«Quando scompare nell’inferno, gli altri personaggi sono persi nella nebbia, come in Amarcord di Fellini, ognuno cerca una strada. E’ la forza del male a tenerli vivi. Il finale, che alcuni tolsero, a cominciare da Mahler, va visto come una risoluzione drammatica: senza la luce sinistra di Don Giovanni sono piombati nel buio della routine, dell’infelicità, di una vita senza scopo. E Donna Anna dice a Don Ottavio: aspettiamo un altro anno per sposarci; Donna Elvira se ne va in convento; Zerlina e Masetto se ne vanno tristemente a casa. E Leporello dice: me ne vado a cercare un padrone migliore».
Le è simpatico, Don Giovanni?
«Non è questione di simpatia o antipatia. Sfugge alla dimensione normale, dell’essere umano. E’ la personificazione del male. Nell’opera dice: mi vanno male tutte quante. Non conclude nulla. Conquista e distrugge, è una figura tenebrosa. Non c’è altra opera di Mozart che sia così pervasa dal senso della morte, presente anche nel gioco, nelle battute a doppio senso, negli ammiccamenti».
Zerlina è ambigua e furbetta?
«Nel giorno delle nozze si fa sedurre da Don Giovanni che la conquista con la galanteria del nobile, in contrasto con i modi contadineschi del suo Masetto. Ci sono critiche continue di Mozart, quando dice che la nobiltà ha impressa negli occhi l’onestà, si capisce che ha subìto i moti rivoluzionari già in movimento».
Maestro, c’è un nuovo ministro della Cultura.
«Ha al suo fianco un uomo coltissimo come Vittorio Sgarbi. Spero che non si adoperino solo per musei o patrimonio archeologico, ma risolvano i problemi di teatri e orchestre sinfoniche. La musica ha bisogno di menti non illuminate: illuminatissime. E volenterose. L’opera è una delle bandiere che possiamo sventolare nel mondo».
5 novembre 2022 (modifica il 5 novembre 2022 | 23:48)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
, 2022-11-05 22:58:00,
di Valerio Cappelli
Il grande direttore a Torino per il Don Giovanni con la regia di sua figlia Chiara e un cast di giovani: «È un titolo difficilissimo, in uno strano equilibrio tra gioco e dramma. Il seduttore vive nel disordine e lo crea: sociale, morale, affettivo».
Ad ascoltarlo, sembra una delle sue lezioni in tv, intrise di cultura umanistica. Riccardo Muti lancia un appello al nuovo governo per aiutare la musica, non solo i musei. E porta, il 18 novembre al Regio di Torino, con la regia di sua figlia Chiara e una compagnia di giovani cantanti, Don Giovanni (unica sua opera prevista per il momento). Lo diresse nel 1987 e nel ’99 alla Scala con la regia di Giorgio Strehler, quindi Vienna, Salisburgo e Ravenna. «Torno a Torino dopo la felice esperienza del Così fan tutte, ho trovato un’orchestra in un’ottima situazione artistica, e collaborativa».
E’ l’opera più enigmatica, misteriosa, indecifrabile.
«E’ difficile per un regista, difficilissima sul piano musicale. Strehler, alla fine del suo spettacolo notturno, mi disse: non l’abbiamo fatto. Fece una pausa e aggiunse, ma non lo farà mai nessuno. Lui era estremo, ma certamente è un’opera impossibile. L’equilibrio è strano già dal titolo: dramma giocoso».
Quanto c’è di dramma e quanto c’è di giocoso?
«La chiave è già nell’ouverture, dove l’inizio è tragico, nella tonalità funebre di re minore, quella del Requiem di Mozart. Sembra musica dell’oltretomba, comincia come l’inferno, poi, dopo gli archi che sembrano gemere, si passa per contrasto a un allegro, un movimento veloce dove si innesca il gioco di una corsa irrefrenabile, vorticosa, di una vita inappagata e inappagabile».
Don Giovanni è stato fatto in mille modi, in carrozzina, omosessuale, con tante divagazioni psicoanalitiche…
«Lui vive nel disordine, lo vive e lo crea. Quando ci sono le tre orchestrine sul palco che suonano tre danze diverse, il Minuetto, la “Follia” e l’Alemanna, Don Giovanni dice: senza alcun ordine la danza sia. E Mozart le sovrappone l’una sull’altra, le incastra con ritmi diversi. Si crea un caos ordinato che in fondo è disordinato. Don Giovanni vuole il disordine: morale, sociale, affettivo. Non ha un obiettivo fisso, questo girovagare da una parte all’altra, questo continuo sbalzare di tonalità, evoca un personaggio che non ha pace. La cosa più grave e negativa dell’opera è un’altra».
Qual è?
«Quando scompare nell’inferno, gli altri personaggi sono persi nella nebbia, come in Amarcord di Fellini, ognuno cerca una strada. E’ la forza del male a tenerli vivi. Il finale, che alcuni tolsero, a cominciare da Mahler, va visto come una risoluzione drammatica: senza la luce sinistra di Don Giovanni sono piombati nel buio della routine, dell’infelicità, di una vita senza scopo. E Donna Anna dice a Don Ottavio: aspettiamo un altro anno per sposarci; Donna Elvira se ne va in convento; Zerlina e Masetto se ne vanno tristemente a casa. E Leporello dice: me ne vado a cercare un padrone migliore».
Le è simpatico, Don Giovanni?
«Non è questione di simpatia o antipatia. Sfugge alla dimensione normale, dell’essere umano. E’ la personificazione del male. Nell’opera dice: mi vanno male tutte quante. Non conclude nulla. Conquista e distrugge, è una figura tenebrosa. Non c’è altra opera di Mozart che sia così pervasa dal senso della morte, presente anche nel gioco, nelle battute a doppio senso, negli ammiccamenti».
Zerlina è ambigua e furbetta?
«Nel giorno delle nozze si fa sedurre da Don Giovanni che la conquista con la galanteria del nobile, in contrasto con i modi contadineschi del suo Masetto. Ci sono critiche continue di Mozart, quando dice che la nobiltà ha impressa negli occhi l’onestà, si capisce che ha subìto i moti rivoluzionari già in movimento».
Maestro, c’è un nuovo ministro della Cultura.
«Ha al suo fianco un uomo coltissimo come Vittorio Sgarbi. Spero che non si adoperino solo per musei o patrimonio archeologico, ma risolvano i problemi di teatri e orchestre sinfoniche. La musica ha bisogno di menti non illuminate: illuminatissime. E volenterose. L’opera è una delle bandiere che possiamo sventolare nel mondo».
5 novembre 2022 (modifica il 5 novembre 2022 | 23:48)
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