di Giuseppe Alberto FalciAlle domande del «Corriere» risponde il costituzionalista Stefano Ceccanti: «Il modello Usa è poco flessibile, e attenti a evitare strani bricolage» Cos’è il presidenzialismo? «Alla lettera — risponde il costituzionalista Stefano Ceccanti — si tratta di un’elezione diretta del presidente separata da quella delle Camere, sopprimendo il rapporto fiduciario. Nei Paesi europei è stata generalmente ritenuta non applicabile perché condurrebbe a blocchi di sistema tra esecutivo e legislativo. Di fatto la sua importazione non fa parte del nostro dibattito accademico e politico». Cos’è il semipresidenzialismo? «Qui ci troviamo invece di fronte all’elezione diretta di un presidente, eletto normalmente a doppio turno per assicurare la massima legittimazione, che convive con un rapporto di fiducia della Camera rispetto a un Governo che è diretto da un suo primo ministro. È un modello più flessibile e anche per questo diffuso in Europa. Anche nei casi limite di presidenti di colore diverso rispetto alle maggioranze politiche, le cosiddette coabitazioni, il sistema può funzionare perché c’è la flessibilità del rapporto fiduciario». Cosa succede negli altri Paesi? «In alcuni il presidente eletto ha poteri molto penetranti e in altri no. In genere chi la propone in Italia preferisce rifarsi, sia pure con adattamenti, al modello francese, perché si tratta di una democrazia, a differenza delle altre, che ha la stessa dimensione di scala della nostra. Bisogna però stare attenti a non fare strani bricolage come la proposta Meloni che mette insieme l’elezione diretta con la mozione di sfiducia costruttiva di tipo tedesco: con la mozione costruttiva il Parlamento impone un governo a un presidente che non ha margini di intervento. Ma allora perché dovrebbe essere eletto direttamente?». Qual è il principale pregio del sistema francese? «Il pregio è quello di superare la condizione per la quale il governo e il presidente del Consiglio si trovano ad essere il vaso di coccio rispetto ai capi di governo del Consiglio europeo che di norma durano molto di più e ai presidenti di Regione eletti direttamente, anche se risultati simili si possono ottenere anche con altre soluzioni istituzionali». E il principale difetto? «Che uno dei due organi di garanzia diventi il vertice di una maggioranza». Quali dovrebbero essere i contrappesi? «Se si dovesse scegliere un sistema francese è evidente che il presidente assumerebbe una configurazione chiaramente di parte, bisognerebbe quindi togliergli poteri di garanzia come la presidenza del Csm, ripensare alle modalità di nomina dei giudici costituzionali e più in generale modificare tutti i quorum di garanzia presenti nella Carta. Andrebbe rifatta gran parte della seconda parte della Costituzione. Ovviamente forme di rafforzamento delle garanzie andrebbero adottate anche se si scegliesse l’altro modello, quello parlamentare rinnovato». Bisognerebbe intervenire anche sulla legge elettorale? «Se ci si ispira al modello francese la logica è quella di eleggere un presidente con mandato della stessa durata della Camera politica e con un sistema elettorale analogo, di modo che normalmente si possa formare una maggioranza dello stesso colore, evitando le coabitazioni. Così i francesi perfezionarono il loro sistema nel 2000». Anche il Pd un tempo tifava per il sistema semipresidenziale francese. «Tradizionalmente nel centrosinistra prevale l’opzione di rafforzare il raccordo tra corpo elettorale, maggioranza e governo sulla base della nota sintesi di Roberto Ruffilli che vuole il cittadino arbitro del governo nel momento in cui vota per le elezioni politiche rispetto quindi al sistema elettorale e a norme che scoraggino le crisi di governo. Esistono comunque persone che come prima o più frequentemente come seconda scelta ritengono plausibile anche l’adozione del modello francese. Non è una discussione dogmatica». Ci sono alternative terze tra il semipresidenzialismo e lo status quo che non soddisfa nessuno? «Ce ne possono essere varie. Una l’hanno spiegata benissimo Luciano Violante, Enzo Cheli e Andrea Manzella. Ripartiamo dall’avere ridotto a 600 i parlamentari, cosa che consente di spostare sul Parlamento in seduta comune tante funzioni, dal rapporto fiduciario alla conversione dei decreti. Per di più una prospettiva più moderata di riforme, questa o un’altra che riproponga un Senato delle autonomie, consentirebbe di aggregare più facilmente un consenso ampio». 14 agosto 2022 (modifica il 14 agosto 2022 | 21:58) © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-08-14 20:13:00, Alle domande del «Corriere» risponde il costituzionalista Stefano Ceccanti: «Il modello Usa è poco flessibile, e attenti a evitare strani bricolage», Giuseppe Alberto Falci