di Claudio BozzaIn Senato i più intransigenti. Il rischio di altri addii alla Camera in caso di rottura «Mollare Draghi o rimanere nel governo tenendo una posizione critica per difendere le nostre battaglie chiave?». L’interrogativo rimbalza senza sosta nelle chat dei parlamentari M5S. È scattato il conto alla rovescia in vista di giovedì, quando in Senato si voterà la fiducia sul decreto Aiuti. Stavolta, a differenza del primo passaggio alla Camera, dove il leader Giuseppe Conte è ben meno influente sul gruppo, non ci saranno scappatoie o artifici politici: o dentro o fuori. «La verità è che ancora non abbiamo deciso cosa fare — confida a taccuini chiusi uno dei cinque vicepresidenti dei 5 Stelle —. Il presidente Conte ha consegnato al premier un documento con 9 richieste per noi fondamentali: se le risposte saranno soddisfacenti bene, altrimenti ne prenderemo atto». Dichiarazioni di circostanza a parte, la realtà è che Conte e i suoi fedelissimi rimasti dopo la scissione di Di Maio stanno continuando ad alzare la tensione, nella speranza di aumentare la contropartita politica. «Il Movimento potrebbe uscire dall’Aula — avverte il sottosegretario all’Interno, Carlo Sibilia —. La linea è chiara: non vogliamo un Papeete bis, ma il salario minimo. Abbiamo portato nove proposte al premier, a partire dal problema dei crediti fiscali del superbonus fino agli stipendi dei lavoratori». E poi c’è il reddito di cittadinanza, difeso di nuovo con forza da Conte: «Non è stato solo un paracadute sociale per molte famiglie, ma anche una concreta possibilità per tanti di sottrarsi al ricatto delle organizzazioni criminali». Ma anche se le risposte del premier fossero giudicate «insoddisfacenti», saltare la fiducia e di fatto dire addio al governo non sarebbe un’operazione facile per Conte. Il leader deve infatti tenere in conto i rischi di un’ulteriore scissione alla Camera, con in testa la ministra delle Politiche giovanili Fabiana Dadone. Da valutare ci sarebbe anche la reazione del capogruppo Davide Crippa che non ha mai avuto feeling con l’ex premier. A Palazzo Madama, però, le pressioni per uscire sono forti. Il gruppo dei 62 senatori rimasti, «depurato» dai dimaiani, è ora ben più compatto sul leader. Tra i più agguerriti sostenitori della linea dura, seppur abbia scelto una strategica via del silenzio, c’è Paola Taverna, che senza una deroga non potrà candidarsi per un terzo mandato. Ci sono poi i falchi come Alberto Airola, i due «Gianluca» (Ferrara e Castaldi), Ettore Licheri e l’ex ministro Danilo Toninelli. Qualche dubbio sembrano averlo l’ex capo reggente Vito Crimi e Massimiliano Fenu, che dopo essere andato con Di Maio aveva ingranato la retromarcia in meno di 24 ore. Di sicuro nessun senatore ha voglia di esporsi pubblicamente: specie dopo la scissione, racconta un eletto, «basta una frase un po’ meno allineata per essere etichettati come spie di Di Maio». Ma se al Senato i 5 Stelle non votassero la fiducia, al governo non mancherebbero i voti. Il problema, quindi, non è numerico ma profondamente politico. Un eventuale addio dei grillini aprirebbe una profonda ferita nel «governo di tutti». Mentre il Pd dovrebbe archiviare il progetto del «campo largo» in vista delle Politiche del prossimo anno. Due incognite profonde. E per questo i pontieri dem stanno lavorando pancia a terra per cercare una mediazione con Conte, che riesca a salvare unità di governo e alleanza politica. 10 luglio 2022 (modifica il 10 luglio 2022 | 22:23) © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-07-10 20:23:00, In Senato i più intransigenti. Il rischio di altri addii alla Camera in caso di rottura, Claudio Bozza