di Tommaso LabateIl suo nome ricorre nel dibattito interno del partito. Ma l’ex premier dice: Tenetemi fuori da queste cose A Elly Schlein ricorda una parola, macerie. Per Pier Luigi Bersani un avverbio, sprezzantemente. Gianni Cuperlo, nell’intervista affidata ad Aldo Cazzullo per il Corriere, l’ha citato cinque volte, pi di Giorgia Meloni (due) e soprattutto pi dell’intera somma di citazioni dedicate agli altri tre sfidanti per la segreteria. E non passa giorno che la stagione andata non sia oggetto di dichiarazioni alle agenzie, post sui social network, prese di posizioni pubbliche, riflessioni da dietro le quinte o dibattiti di circolo come quelli in corso dentro il partito, che accompagneranno la carrozza fino all’elezione di un nuovo leader. Oggi sono esattamente milleottocento giorni. Milleottocento giorni trascorsi dal pomeriggio in cui Matteo Renzi ha annunciato l’addio alla segreteria del Pd, poi formalizzato in seguito e sfociato tempo dopo nella fondazione di un altro partito. Tanta l’acqua passata sotto i ponti da quel 5 marzo 2018, la data in cui l’ex presidente del Consiglio prese la parola per annunciare l’avvio delle operazioni di un congresso serio e risolutivo. E adesso — dove per adesso si intende un periodo che conclude una fase di cinque anni, dopo un congresso vero, tre segretari di cui uno uscito dalle primarie (Nicola Zingaretti), un reggente (Maurizio Martina), un subentrato con pieni poteri (Enrico Letta), per non dire del numero imprecisato di vicesegretari e presidenti dell’Assemblea —, adesso non rimane che l’eterno ritorno dell’uguale, la puntina che insiste su un 33 giri incantato, l’amaro calice che combatte tutto meno che l’incessante logoramento della vita moderna del Pd, tutto incentrato attorno a Renzi, con l’unico cedimento alla rottura della monotonia che si materializza quando il soggetto (Renzi, appunto) si fa fenomeno (renzismo), in una variazione sul tema che tutto cambia meno che la melodia della canzonetta. Tenetemi fuori da queste cose, risponde il diretto interessato tutte le volte che i suoi gli inoltrano sul telefonino l’ultimo dispaccio d’agenzia sul dibattito interno al Pd che contiene il suo nome. Solo due volte, negli ultimi tempi, ha fatto uno strappo alla regola che si autoimposto, quella del silenzio: quando, citando Shakira mollata dal fidanzato Piqu, ha detto che il Pd ha lasciato la Ferrari (lui) per una Twingo; e quando ha preso le distanze da Bonaccini per la fugace apparizione dell’ex grillino Dino Giarrusso alla convention milanese del governatore dell’Emilia-Romagna, con quell’annuncio di tesseramento poi diventato lettera morta. Sballato ogni jackpot aritmetico sui giorni che servono a dimenticare una persona (i mille giorni di te e di me della struggente ballata di Claudio Baglioni, le cento notti che il giovane Tot del Nuovo Cinema Paradiso di Tornatore trascorse al freddo e al gelo sotto il balcone della ragazzina amata), anche dopo milleottocento giorni, nel perimetro del suo ex partito Renzi rimane un convitato della pietra pi ostica persino da scalfire. In grado, senza muovere un dito, di creare cortocircuiti come quello della settimana scorsa, quando il candidato accusato dai rivali di filorenzismo (Bonaccini) ha annunciato la voglia di tornare all’articolo 18 ed stato preso di mira contemporaneamente dallo stesso Renzi e dagli anti-renziani pi ortodossi. Renzi s/Renzi no, in fondo, sembra un ritornello sanremese; come l’Italia che alla fine del secolo scorso, sul palco dell’Ariston, Elio e Le Storie Tese catalogarono alla voce terra dei cachi. E mentre nel Pd lo evocano come una specie di spettro da film dell’orrore, lui, Renzi, ostenta la sicumera di chi, sotto sotto, non si dispiace che si parli ancora di lui. Perch in fondo, nella politica come nella vita, bene o male purch se ne parli. Anche se le mode cambiano, il tempo passa. E anche se i giorni dall’addio alla segreteria, domani, saranno gi milleottocentouno. 6 febbraio 2023 (modifica il 6 febbraio 2023 | 23:03) © RIPRODUZIONE RISERVATA