editoriale Mezzogiorno, 28 settembre 2022 – 10:43 di Marco Demarco Dati alla mano, il voto ci consegna un Sud all’opposizione e un Centro-Nord maggioritario e di governo. Il che vuol dire anche un Sud «contro» e un Centro-Nord inevitabilmente «per». Ancor di più, questo vuol dire un Paese spaccato non solo geograficamente e politicamente, con i Cinquestelle forti nella parte meridionale e Fratelli d’Italia dall’altra, ma un Paese diviso perfino nell’umore, nello spirito pubblico. Se il Centro-Nord ha votato per indicare una «direzione», un senso di marcia, non è del tutto azzardato, infatti, dire che il Sud ha votato invece per difendere una «posizione», una sorta di casamatta in un quadro di crescente diseguaglianze territoriali. E se la direzione del Centro-Nord è quella del presidenzialismo, dell’autonomia differenziata, di una tassazione indulgente con chi investe, e delle politiche attive per il lavoro necessarie addirittura più di quelle correttive del disagio sociale: in sostanza, la direzione della crescita; la posizione del Sud è invece quella di certi livelli di assistenza caparbiamente raggiunti, del reddito di cittadinanza come unica alternativa alla marginalità assoluta, e delle quote fisse dei finanziamenti pubblici del piano di rinascita e resilienza: in sostanza, la posizione della redistribuzione. Prima del voto, il rischio ipotizzato, ma non auspicato, era appunto questo. Che il Nord si presentasse come l’espressione delle passioni positive del Paese, dell’attivismo avverso al fatalismo; e che il Sud si identificasse invece con quelle cosiddetti tristi: con la paura per le riforme, ad esempio; o con il risentimento per l’abbandono da parte dello Stato; o con la rassegnazione tipica di chi, non avendo trovato quel che desiderava, si accontenta di ciò che trova. O, ancora, e nella peggiore delle ipotesi, con tutto l’insieme di queste passioni. Ora, dopo il voto, il temuto è accaduto. Quello appena dipinto è appunto il quadro offerto dai dati allarmanti dell’astensionismo meridionale; dall’assenza di un vero partito nazionale, uniformemente predominante; dalla sorprendente tenuta del movimento meridiano di Conte; e dalle incertezze tattiche e programmatiche del Pd, aggravate dalle esuberanze e dagli opportunismi dei governatori del Sud. Proprio a proposito della sinistra, allora, forse è venuto il momento di fare come qualcuno già suggerisce. Di cominciare a parlarne non più come una questione partigiana, e quindi in termini autoreferenziali, se non apertamente narcisistici, ma semmai come una questione «sistemica», riguardante l’assetto complessivo del Paese. Perché, se il problema comune è quello di tenere insieme le ragioni della crescita, la sacrosanta aspirazione a ridurre le diseguaglianze e il necessario rafforzamento delle istituzioni democratiche, senza il quale nulla è possibile, va da sé che una sinistra unita, e con le idee chiare sulle cose da fare, diventa un requisito essenziale per ridare slancio al Paese. Prova ne è ciò che è successo nei paesi scandinavi, dove una sinistra unita sotto il segno della socialdemocrazia è riuscita per decenni a garantire alti standard di vita, bassi livelli di diseguaglianza e, ancora oggi, nonostante le recenti vicende elettorali, una forte capacità di rappresentare le classi lavoratrici. È questa, del resto, la tesi di Carlo Trigilia, autore di un saggio («La sfida delle diseguaglianze. Contro il declino della sinistra». Il Mulino) la cui lettura è vivamente consigliata. Una sinistra unita — spiega l’autore — non solo difende meglio la propria parte sociale, ma in virtù della sua forza riesce anche a negoziare con maggiore responsabilità, a strappare garanzie più avanzate e più compatibili con in tempi, a ridurre le spinte populiste e a non dare per scontata la fine del capitalismo democratico. Ovvero, di quel contesto in cui è ancora possibile esprimersi non solo su chi e come deve decidere, ma anche su cosa si può decidere e in rapporto a quali percorsi di sviluppo. In fondo, la destra italiana ha vinto le elezioni proprio perché è andata al di là dell’originaria dimensione «sociale», di attenzione esclusiva ai ceti marginali. Ha vinto quando è riuscita a proporsi come forza dinamica pur autodefinendosi conservatrice. Ed è un paradosso, certo. Ma di sicuro di segno opposto a quello di una sinistra che continua a dirsi progressista pur se bloccata dagli opposti che la dilaniano. 28 settembre 2022 | 10:43 © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-09-28 08:43:00, editoriale Mezzogiorno, 28 settembre 2022 – 10:43 di Marco Demarco Dati alla mano, il voto ci consegna un Sud all’opposizione e un Centro-Nord maggioritario e di governo. Il che vuol dire anche un Sud «contro» e un Centro-Nord inevitabilmente «per». Ancor di più, questo vuol dire un Paese spaccato non solo geograficamente e politicamente, con i Cinquestelle forti nella parte meridionale e Fratelli d’Italia dall’altra, ma un Paese diviso perfino nell’umore, nello spirito pubblico. Se il Centro-Nord ha votato per indicare una «direzione», un senso di marcia, non è del tutto azzardato, infatti, dire che il Sud ha votato invece per difendere una «posizione», una sorta di casamatta in un quadro di crescente diseguaglianze territoriali. E se la direzione del Centro-Nord è quella del presidenzialismo, dell’autonomia differenziata, di una tassazione indulgente con chi investe, e delle politiche attive per il lavoro necessarie addirittura più di quelle correttive del disagio sociale: in sostanza, la direzione della crescita; la posizione del Sud è invece quella di certi livelli di assistenza caparbiamente raggiunti, del reddito di cittadinanza come unica alternativa alla marginalità assoluta, e delle quote fisse dei finanziamenti pubblici del piano di rinascita e resilienza: in sostanza, la posizione della redistribuzione. Prima del voto, il rischio ipotizzato, ma non auspicato, era appunto questo. Che il Nord si presentasse come l’espressione delle passioni positive del Paese, dell’attivismo avverso al fatalismo; e che il Sud si identificasse invece con quelle cosiddetti tristi: con la paura per le riforme, ad esempio; o con il risentimento per l’abbandono da parte dello Stato; o con la rassegnazione tipica di chi, non avendo trovato quel che desiderava, si accontenta di ciò che trova. O, ancora, e nella peggiore delle ipotesi, con tutto l’insieme di queste passioni. Ora, dopo il voto, il temuto è accaduto. Quello appena dipinto è appunto il quadro offerto dai dati allarmanti dell’astensionismo meridionale; dall’assenza di un vero partito nazionale, uniformemente predominante; dalla sorprendente tenuta del movimento meridiano di Conte; e dalle incertezze tattiche e programmatiche del Pd, aggravate dalle esuberanze e dagli opportunismi dei governatori del Sud. Proprio a proposito della sinistra, allora, forse è venuto il momento di fare come qualcuno già suggerisce. Di cominciare a parlarne non più come una questione partigiana, e quindi in termini autoreferenziali, se non apertamente narcisistici, ma semmai come una questione «sistemica», riguardante l’assetto complessivo del Paese. Perché, se il problema comune è quello di tenere insieme le ragioni della crescita, la sacrosanta aspirazione a ridurre le diseguaglianze e il necessario rafforzamento delle istituzioni democratiche, senza il quale nulla è possibile, va da sé che una sinistra unita, e con le idee chiare sulle cose da fare, diventa un requisito essenziale per ridare slancio al Paese. Prova ne è ciò che è successo nei paesi scandinavi, dove una sinistra unita sotto il segno della socialdemocrazia è riuscita per decenni a garantire alti standard di vita, bassi livelli di diseguaglianza e, ancora oggi, nonostante le recenti vicende elettorali, una forte capacità di rappresentare le classi lavoratrici. È questa, del resto, la tesi di Carlo Trigilia, autore di un saggio («La sfida delle diseguaglianze. Contro il declino della sinistra». Il Mulino) la cui lettura è vivamente consigliata. Una sinistra unita — spiega l’autore — non solo difende meglio la propria parte sociale, ma in virtù della sua forza riesce anche a negoziare con maggiore responsabilità, a strappare garanzie più avanzate e più compatibili con in tempi, a ridurre le spinte populiste e a non dare per scontata la fine del capitalismo democratico. Ovvero, di quel contesto in cui è ancora possibile esprimersi non solo su chi e come deve decidere, ma anche su cosa si può decidere e in rapporto a quali percorsi di sviluppo. In fondo, la destra italiana ha vinto le elezioni proprio perché è andata al di là dell’originaria dimensione «sociale», di attenzione esclusiva ai ceti marginali. Ha vinto quando è riuscita a proporsi come forza dinamica pur autodefinendosi conservatrice. Ed è un paradosso, certo. Ma di sicuro di segno opposto a quello di una sinistra che continua a dirsi progressista pur se bloccata dagli opposti che la dilaniano. 28 settembre 2022 | 10:43 © RIPRODUZIONE RISERVATA ,