Prove Invalsi per l’accesso all’università: un errore scientifico e politico. Intervista al pedagogista Cristiano Corsini

Prove Invalsi per l’accesso all’università: un errore scientifico e politico. Intervista al pedagogista Cristiano Corsini

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In questi ultimi giorni si sono moltiplicate le voci sull’uso delle prove Invalsi per l’accesso all’Università. Il progetto sta già incassando giudizi favorevoli, come per esempio quello di Daniele Checchi, economista ed esperto di sistemi scolastici.
Flc-Cgil al contrario ha espresso una posizione nettamente negativa.
Ne parliamo con il professore Cristiano Corsini, pedagogista e docente presso l’Università di Roma Tre.
Professore Corsini, da pedagogista, lei cosa ne pensa?
Se quanto scritto da Checchi sull’impiego delle prove INVALSI corrispondesse a realtà, ci troveremmo di fronte a una scelta con gravi ripercussioni negative, che metterebbe in difficoltà non solo scuole, docenti, studentesse e studenti, ma anche l’INVALSI.
Si tratterebbe di un gravissimo errore, una decisione sbagliata dal punto di vista scientifico-pedagogico e politico.
Perché parla di problemi scientifici?
I problemi sul versante scientifico sono legati al fatto che, sebbene le prove INVALSI abbiano indubbiamente dei pregi, vanno tenuti presenti anche i loro limiti. Le prove offrono informazioni rilevanti sulle conoscenze e le abilità della popolazione, ma questo non significa affatto che siano strumenti validi per misurare le competenze di un singolo individuo. Prove del genere nascono per rendere conto del sistema nel suo complesso o di gruppi. Gli errori di misura che uno strumento simile inevitabilmente comporta vengono minimizzati nella somministrazione su vasta scala, ma quando usiamo una prova come quelle INVALSI per misurare gli apprendimenti di un singolo studente ecco che la misura ottenuta sarà estremamente imprecisa e scarsamente affidabile.
Sotto il profilo più strettamente pedagogico quali sono a suo parere i limiti della proposta?
I test non misurano competenze, a differenza di quanto asserito da Checchi.
A meno di non avere un’idea pedagogicamente indifendibile delle competenze, una visione che, per esempio, rinunci alla capacità di impiegare le conoscenze per interpretare e trasformare criticamente la realtà, le prove oggettive non misurano competenze.
Possono aiutarci ad avere un’idea di alcuni elementi che caratterizzano le competenze, ma non sono considerabili una misura valida di competenza.
Oltretutto le prove contemplano solamente domande a risposta chiusa e non quesiti aperti che magari potrebbero fornire qualche elemento in più …
Infatti, come Checchi dovrebbe sapere (fu lui stesso a suggerire questa soluzione), la scelta di somministrare le prove INVALSI su tutta la popolazione ha di fatto impedito di rivolgere un numero accettabile di domande aperte e complesse, che sono proprio quelle domande (presenti nelle indagini campionarie IEA e OCSE) che ci consentono di ottenere informazioni su dimensioni complesse degli apprendimenti, ovvero quelle dimensioni che richiedono l’impiego attivo di conoscenze e abilità.
Ci può fare un esempio?
Il processo “riflettere su un testo valutandone la forma o il contenuto”, pur essendo presente nei quadri di riferimento delle prove nazionali, non viene adeguatamente rilevato dalle prove INVALSI… come possiamo pensare di misurare competenze di lettura senza ottenere informazioni su questo processo?

Con quali conseguenze?
Se noi assegnassimo ulteriore importanza all’esito del test spingeremmo docenti, studentesse e studenti a lavorare solamente sulle conoscenze e le abilità rilevabili con domande a scelta multipla e sarebbe davvero un impoverimento della didattica, dell’insegnamento e dell’apprendimento. Senza contare che tutto questo comprometterebbe lo sviluppo di una motivazione intrinseca verso l’apprendimento.
Lei ha accennato anche a problemi di natura politica. Si spieghi meglio.
Dal punto di vista politico, questa scelta sarebbe davvero iniqua. Comprometterebbe le opportunità future (selezione in ingresso in università) di chi non si conforma a quanto richiesto dai test e aumenterebbe le disuguaglianze. Senza contare che verrebbe messo in discussione non solo il valore legale del titolo di studio, ma anche la legittimità delle valutazioni effettuate da migliaia di docenti. Sappiamo dagli anni Settanta (dalle prime indagini IEA) che non sempre c’è correlazione tra voto e rendimento a prove oggettive, ma non è un buon motivo per scambiare l’affidabilità di una misura con la sua validità, rafforzando così una visione retriva della scuola e della valutazione (intesa come mero controllo e non come sviluppo).
Sul ruolo e sulla funzione dell’Invalsi non mancano critiche anche molto forti; qualcuno auspica persino la chiusura dell’Istituto. Lei cosa ne pensa?
L’INVALSI è un istituto che ha grandissime professionalità ed è in grado di svolgere il compito che la legge gli assegna, e cioè quello di occuparsi della valutazione di sistema e delle scelte relative alla politica scolastica.
Il problema è che quanto più ci si focalizza sulla valutazione di singoli studenti o scuole, tanto meno ci si concentra sulla valutazione dell’efficacia e dell’equità delle piccole e grandi riforme che hanno caratterizzato la scuola negli ultimi vent’anni. Insomma, il rischio è che la responsabilizzazione dei singoli attraverso i test continui a coprire le responsabilità di una politica scolastica che non accetta di sottoporre alla prova dell’esperienza le proprie scelte. All’INVALSI va affidata con coraggio la valutazione di sistema, non la compilazione di pagelle di scuole, docenti, studentesse e studenti.

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Pietro Guerra

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