La psicoterapia aiuta di più quando c’è la partecipazione attiva del paziente

di Danilo di Diodoro

La collaborazione attiva alla cura, anche quando corroborata da farmaci, è decisiva per conseguire gli obiettivi desiderati. Una visione che si è affermata dagli anni ‘90

Forse fa piacere sapere che siamo sempre e comunque i terapeuti di noi stessi, o che quantomeno non può mai mancare il nostro diretto apporto personale, qualunque sia la psicoterapia che decidiamo di seguire.

Solo metà del percorso

Infatti, lungi dall’essere un processo passivo, un affidarsi senza dover fare nessuno sforzo, la psicoterapia emerge come un processo necessariamente attivo come spiega il libro «Uscire dalla sofferenza mentale – Storie di cure e di autoterapia» (tab edizioni, 2022) di Giovanni Fava, professore di psichiatria all’università di Buffalo, New York. «Quando prescrivo un farmaco a un paziente aggiungo sempre alla ricetta con le indicazioni farmacologiche una seconda ricetta, dove vengono date anche le indicazioni di autoterapia» sottolinea Fava. «Spiego che la prima ricetta può contribuire, nella migliore delle ipotesi, al 50 per cento dell’esito. La seconda deve stimolare l’altro 50 per cento, che concerne ciò che la persona può fare per aiutare il proprio processo di miglioramento. Si tratta spesso di indicazioni molto semplici, che riguardano lo stile di vita, e servono a far sì che il paziente assuma un ruolo attivo nella propria terapia e non rimanga in casa ad aspettare che il farmaco faccia effetto. Cerco di far capire che il medicinale è una stampella, che può aiutare a compiere azioni e ad affrontare situazioni che al momento quella persona potrebbe non essere in grado cose di svolgere. Senza questo tipo di sforzo, il farmaco rischia di non servire a nulla, una specie di stampella che viene tenuta in un angolo».

Basi teoriche

La visione della psicoterapia come fenomeno attivo da parte del paziente ha solide base teoriche, anche se nella visione corrente questa forma di trattamento è spesso mal interpretata come una sorta di ricorso a un terapeuta che dovrà trovare la via di uscita dalla condizione di malessere, indicando anche il percorso da seguire. Ma, già nei primi anni Novanta, Jerome David Frank, professore di psichiatria alla Johns Hopkins University, aveva chiarito come la psicoterapia sia in fondo una autoterapia guidata, che si basa sulle capacità dello psicoterapeuta di mettere in moto le forze interne di guarigione che ognuno di noi possiede. «Nella visione di Frank, compito del terapeuta, mediante il rapporto speciale che si instaura, è di indicare la strada, di aiutare a superare le difficoltà che si possono incontrare, e anche di infondere la forza e la fiducia che sono necessarie per percorrerla» specifica Fava.

Fasi da attraversare

Perché questo processo possa instaurarsi, è necessario che il paziente percorra alcune fasi, anche se questo non vuol dire che la psicoterapia debba per forza avere tempi lunghi. Anzi, la pratica attuale delle psicoterapie, sempre più frequentemente di derivazione cognitivo-comportamentale, è fondata su un numero relativamente ristretto di sedute. Ad esempio, nella terapia cognitivo comportamentale il paziente viene inizialmente invitato a cercare di riconoscere e individuare i momenti e le emozioni di maggiore disagio in un diario. È una fase importante perché è da quella prima piattaforma che poi si può procedere verso tentativi di cambiamento. Nella Well-Being Therapy, messa a punto dallo stesso Fava in Italia e ora praticata in tutto il mondo, il procedimento è simile, ma l’obiettivo del diario è puntato verso i momenti di benessere psicologico. Nella fase iniziale, con l’aiuto del terapeuta, la persona scopre cosa la fa stare bene e cosa tende a interrompere questi momenti. La realizzazione di una fase è indispensabile per poter passare a quelle successive, fondate sulla autoterapia, in un equilibrio tra l’impegno del paziente e quello del terapeuta che però tende ad assumere più che altro un ruolo di guida su ciò che è da fare, lasciando al paziente il compito di realizzare da solo i propri passi. «Una regola non scritta in psicoterapia, ma che ho imparato a mie spese con persone che la interrompevano inaspettatamente, è che è controproducente passare a una fase successiva se non è prima stata acquisita una completa padronanza della precedente» rinforza Fava. «Non si tratta di perdere tempo, ma di affrontare difficoltà, resistenze, e di individuare in qualche caso fattori contro-terapeutici che remano contro il progredire della terapia».

Fobie

Un esempio di psicoterapia dal quale emerge in modo particolarmente evidente il ruolo attivo che deve assumere il paziente è quella attuata con le fobie, come l’agorafobia – la paura di sentirsi male e non potere essere soccorsi – e la fobia sociale. Si tratta di tecniche psicoterapiche basate sulla progressiva esposizione all’oggetto delle paure, che il paziente svolge da solo tra una seduta e l’altra in maniera graduale e programmata. Dice Fava, che ha diretto Psychotherapy and Psychosomatics, una delle più importanti riviste scientifiche internazionali di psichiatria e psicologia: «Il livello di partecipazione del paziente può essere molto diverso, dal momento che può svolgere solo alcuni dei compiti che gli vengono assegnati, oppure può decidere di modificarli e perfino di aggiungerne altri oltre a quelli che gli sono stati prescritti. La principale difficoltà tecnica risiede proprio nel riuscire a programmare l’esposizione in rapporto ai tempi di risposta di quella specifica persona, anche in relazione al livello di difficoltà o di vera e propria invalidità determinata dall’evitamento fobico. «È un continuo equilibrio tra l’incoraggiamento da “somministrare” quando davvero serve, e l’invito alla cautela, quando ci si rende conto che i tempi non sono maturi. Ogni psicoterapia breve quindi è un viaggio unico, individuale, dove la variabile più importante è il livello di autoterapia che il paziente riesce a raggiungere e che continua anche dopo la fine della psicoterapia».

4 dicembre 2022 (modifica il 4 dicembre 2022 | 17:22)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

, 2022-12-04 16:24:00, La collaborazione attiva alla cura, anche quando corroborata da farmaci, è decisiva per conseguire gli obiettivi desiderati. Una visione che si è affermata dagli anni ‘90, Danilo di Diodoro

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Exit mobile version