di Emilia Costantini
Il regista e produttore cinematografico e la moglie, detta «Nicola», sposati dal 1964. «Dopo i miei errori ha saputo riaccogliermi»
«Lei, bellissima, camminava nelle strade di Bologna tenendosi per mano con un tipo bello, alto, era un principe, Gianluigi Zucchini. E io, vedendola, mi resi conto che era la tessera mancante del mio puzzle. Che era la “lei” della storia della mia vita». È già una dichiarazione d’amore, questa di Pupi Avati alla moglie Amelia Turri, detta «Nicola», nome del nonno, che ha sposato nel 1964. «Ero un ragazzo con tutte le difficoltà di chi avverte la propria inadeguatezza nei riguardi dell’altro sesso. Ma come succede, sono gli opposti che si attraggono: meno sei seducente e più ti piacciono le persone seducenti»
Come riuscì a conoscerla?
«Grazie al mio amico del cuore, Antonio Foresti, detto Cicci. Ci compensavamo: lui disinibito, io inibito. Fece di tutto per farmela incontrare, invitandola a prendere un gelato in collina, lei accettò. Cicci guidava la sua 500 con lei a fianco, io seduto dietro con una finta fidanzata un po’ bruttina. La gita si ripeté per tre venerdì di seguito con lei convinta di essere corteggiata proprio da Cicci: non lo disdegnava, e non aveva idea della fregatura. Finché una sera, dopo il gelato, era prevista una caccia al tesoro, ma lei voleva andare a casa e il mio amico mi convinse ad approfittare dell’opportunità candidandomi ad accompagnarla. Ovviamente volevo, ma non mi sentivo adeguato… Allora fu lei che si rivolse a me chiedendo: mi accompagni tu? Non potevo dire di no, era fatta. Ma quei cinque chilometri li feci, in pratica, col freno a mano tirato».
Ovvero?
«Non riuscivo a dire una parola e cercavo di centellinare il percorso. Arriviamo davanti al cancello di casa sua. Lei scende, mi ringrazia, era finita… mi ero giocato la grande opportunità della mia vita: disperazione assoluta. Lei sta raggiungendo il suo cancello quando dall’alto dei Cieli vengo soccorso da un’idea geniale. Le dico: fermati un attimo e guarda questo! Era l’orologio di mio padre che portavo al polso. Lei interdetta lo guarda e io aggiungo: mancano cinque minuti alla mezzanotte del 18 settembre, che è il mio compleanno ma nessuno finora mi ha fatto gli auguri. Nemmeno un bacio. Fra cinque minuti tutte le opportunità sono finite. Lei ci pensa un attimo, poi si protende e mi bacia. In realtà io compio gli anni il 3 novembre».
Insomma, tutto nasce da una bugia…
«Esattamente. E dopo nove mesi, in chiesa, un signore vestito in modo strano, chiede a lei: vuoi il qui presente Giuseppe Avati come tuo legittimo sposo? Eravamo entrambi felici di impegnarci per quel “sempre” che è fuori da ogni interlocuzione. Oggi è censurato persino dalle canzoni, le persone hanno paura di legarsi sine die».
Ma da cosa si era lasciata sedurre?
«Dalla mia fantasia che le prometteva una vita straordinaria, di un divertimento senza fine. Una promessa che non ho mantenuto. Ma nella coppia c’è sempre uno dei due che ama di più, mentre l’altro si lascia trascinare: credo di essere quello che ha amato di più, sedotto a mia volta dalla sua bellezza appagante».
Fantasia, creatività, però lei ancora non era il regista famoso…
«Assolutamente no e, per mettere su famiglia, entrai in una società di surgelati, tuttavia con il retropensiero che avrei lasciato tutto pur di realizzare il mio sogno artistico, prima musicale, poi divenne cinematografico. Lei mi credette. Ma fare cinema era mestiere da giocatori d’azzardo, vivere in uno stato di precarietà continua. Il nostro nucleo familiare soffrì non poco tale scelta con lei che non vedeva cambiare la sua vita, anzi, si dedicava in modo straordinario ai nostri figli, con un marito assente. Oltretutto i miei due primi film furono un disastro. Tuttavia l’ubriacatura del cinema mi faceva atteggiare a star nella provinciale Bologna, come se avessi realizzato dei capolavori, provavo un delirio di onnipotenza. Così cominciai a frequentare persone sbagliate, i pesci pilota di Hemingway, alternativi a stare con lei, che si ritrovò sola, con i figli da crescere e un marito che tornava a casa alle 3 del mattino. Tutte le mie promesse, il mio accattonaggio affinché accettasse la mia corte, si era trasformato in qualcosa di contrario. Le persone che andavo incontrando produssero in me quella tale confusione dei valori, che venni cacciato di casa, rifiutato anche dai figli. Quando andavo a trovarli e portavo loro regali, non li scartavano neppure. Il mio eccessivo egoismo mi aveva isolato. Un risveglio dolorosissimo, anche per il naufragio lavorativo: trattato da tutti, amici e colleghi, come un fallito».
Come riuscì a farsi riaccettare dalla moglie Nicola?
«A più riprese, tentai il riavvicinamento, facendole capire che mi ero ravveduto e lei, generosamente, mi accolse di nuovo: il gesto più bello che potesse fare. Decidemmo allora di scappare da Bologna e andare a Roma, da mia madre che a via del Babuino aveva aperto una pensione, dove ospitava gli studenti di una scuola americana. Io ero disoccupato e abbiamo vissuto là per quattro anni: il nostro vero matrimonio è iniziato realmente in quel momento. Ero ormai vaccinato dall’idea di seduttività dovuta alla professione di regista».
Da quel momento tutto fila liscio?
«No, turbolenze continue. Il cinema e il matrimonio sono i due mestieri più difficili, sia per me, sia per lei. Però le sono davvero riconoscente per avermi accolto e suggerisco a chi legge che, a volte, è bello ritornare dopo una separazione. È bello ritrovare una persona e cerchi le ragioni per cui, tanto tempo prima, ti aveva conquistato. Ora Nicola ha più di 70 anni, io più di 80, ma in lei rivedo la ragazza e mi rinnamoro di lei».
Infatti vi siete anche risposati…
«Abbiamo celebrato i 50 anni di matrimonio, il nostro omaggio a una unione che ha resistito contro tutto e tutti, anche se alla nostra età i rapporti cambiano, sono diventati molto basilari. Per esempio, non ci si abbraccia più, mentre invece l’abbraccio ha rappresentato per gran parte della nostra unione un momento di misteriosa intimità. Sono convinto che l’abbraccio sia fra le manifestazioni affettive quella in cui la tenerezza si esprima al massimo della sua potenzialità. Siamo arrivati alla vecchiaia, alla superba stagione della vulnerabilità. Essere vulnerabili significa avvertire che gli anticorpi sono esauriti, di non avere più le difese necessarie ad affrontare il mondo nelle sue asprezze e tuttavia che puoi fare del male o riceverlo per una sciocchezza. È come tornare indietro, senti di somigliare al bambino che eri un tempo, reimpari a piangere o a ridere per un nonnulla».
Vi siete risposati già una volta. Cosa vorrebbe fare ora per Nicola, per riconquistarla nuovamente?
«Esiste una competizione esplicita tra lei e il mio lavoro, al quale attribuisce il fatto che la nostra unione è stata spesso travolta da varie turbolenze, pur avendo retto nel tempo sia pure in modo faticoso. L’unico grande regalo che potrei farle, è tornare a casa un giorno e dirle: non faccio più cinema».
15 settembre 2022 (modifica il 15 settembre 2022 | 07:16)
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, 2022-09-15 05:22:00, Il regista e produttore cinematografico e la moglie, detta «Nicola», sposati dal 1964. «Dopo i miei errori ha saputo riaccogliermi», Emilia Costantini