Referendum, perché è stato un fallimento: quesiti poco comprensibili, «usura» dello strumento e scarsa mobilitazione

Referendum, perché è stato un fallimento: quesiti poco comprensibili, «usura» dello strumento e scarsa mobilitazione

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di Nando Pagnoncelli

Molti elettori avevano dichiarato nei sondaggi pre voto di non essere in grado di comprendere l’impatto dell’abrogazione delle norme oggetto della consultazione

Il quorum non è stato raggiunto, dunque il referendum non è valido. Non è una sorpresa, era un destino ampiamente annunciato, riconducibile ad almeno 3 fattori tra loro interconnessi: innanzitutto la limitata risonanza mediatica dell’appuntamento referendario. Per lungo tempo è stato in sordina, non ha acceso il dibattito, ha mobilitato poco i partiti (con l’eccezione dei promotori) e ancor meno gli elettori, i quali nelle ultime due settimane, pur avendo preso consapevolezza della consultazione (82% ne era a conoscenza), in larghissima misura si sono mostrati disinteressati.

In secondo luogo, la complessità di alcuni quesiti referendari che hanno alimentato un sentimento di inadeguatezza rispetto alle questioni oggetto di voto: se in Italia le competenze linguistiche e matematiche sono inferiori alle media dei 36 paesi Ocse, possiamo solo immaginare quali possano essere le competenze in ambito giuridico e istituzionale. Riguardo almeno tre dei cinque quesiti referendari la stragrande maggioranza, stando alle nostre interviste, dichiarava di non essere in grado di valutare le conseguenze derivanti dalla possibile abrogazione delle norme. Quasi nessuno sapeva dell’esistenza dei Consigli giudiziari e di ciò che comporti l’esclusione degli avvocati che ne fanno parte dalla valutazione dell’operato dei magistrati e della loro professionalità; per non parlare delle procedure che consentono ai magistrati di presentare la propria candidatura al Csm.

Da ultimo, quella che potremmo definire «l’usura» del referendum abrogativo, a cui nell’Italia repubblicana abbiamo fatto ricorso in 18 occasioni per un totale di 72 quesiti: si tratta di un declino molto evidente, basti pensare che dal 1974 al 1995 in Italia si sono tenute nove consultazioni referendarie, con un’affluenza media di poco superiore al 70%, delle quali una sola risultò non valida (quella del 1990 con due quesiti sulla caccia e uno sull’uso dei fitofarmaci in agricoltura), mentre negli ultimi 15 anni la situazione si è completamente rovesciata, infatti delle nove consultazioni abrogative istituite, otto sono risultate non valide (compresa quella di ieri), e tra queste ce ne furono due, nel 1997 e nel 2000, che comprendevano quesiti riguardanti la giustizia e raggiunsero un’affluenza rispettivamente del 30% e del 32%. Dunque, solo una ha superato il quorum, nel 2011, quando gli elettori furono chiamati ad esprimersi su temi giudicati di grande importanza (e di facile comprensione) per i cittadini, dall’abrogazione della gestione privata dell’acqua a quella delle norme che consentivano la produzione di energia nucleare. Insomma, questioni che suscitarono un grande dibattito politico e mediatico.

Tra i motivi di questa «usura» c’è anche la disillusione di una larga parte degli italiani persuasi dell’inutilità dello strumento, dato che talora in passato furono introdotti provvedimenti legislativi che non rispettavano l’esito referendario. Insomma, ce n’è abbastanza per riflettere su un utilizzo più appropriato di questo importante strumento di democrazia diretta. Ma è ciò che inutilmente si dice sempre, come una stanca litania, all’indomani del fallimento di un referendum.

13 giugno 2022 (modifica il 13 giugno 2022 | 10:06)

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, 2022-06-13 11:30:00, Molti elettori avevano dichiarato nei sondaggi pre voto di non essere in grado di comprendere l’impatto dell’abrogazione delle norme oggetto della consultazione, Nando Pagnoncelli

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