Regionalismo e diseguaglianze

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Mezzogiorno, 3 luglio 2022 – 09:18 di Mario Rusciano I problemi all’orizzonte della politica italiana nel prossimo (e ultimo) anno di legislatura sono molti; uno più complicato dell’altro. Ma uno in particolare è più importante degli altri, benché se ne parli poco. È il problema della cosiddetta «autonomia regionale differenziata» su cui si giocano interesse nazionale e coesione sociale del Paese. Dopo un periodo di relativo silenzio, vuole ora risolverlo la ministra degli Affari Regionali Mariastella Gelmini, che sta allestendo un «disegno di legge-quadro» da portare in Consiglio dei Ministri per l’approvazione e poi in Parlamento. È un disegno fortemente voluto dalla destra, soprattutto dalla Lega, ma caldeggiato anche dai presidenti (di centrosinistra) di Emilia-Romagna e Toscana. Ciò dimostra ancora una volta che, oltre al divario economico-finanziario, tra Nord e Sud esistono tensioni e diffidenze socio-culturali. Di qui l’imbarazzo, per esempio, del Pd e di parte della sinistra (specie del Nord), che non esprimono in materia una posizione chiara. Non parliamo poi del silenzio dei nostri «leghisti del Sud», loquaci su tante cose. Contrariamente a quanto sostiene la ministra, il suo disegno di legge non risolve e aggrava il problema. Difatti, basandosi sul titolo V della Costituzione – riformato nel 2001 dal centrosinistra per un errore storico (chiarito con precisione da Francesco Marone nell’editoriale, mercoledì scorso, del Corriere del Mezzogiorno ) – esso vuole dettare principi per soddisfare l’antica aspirazione delle Regioni del Nord – governate per lo più dalla destra, ma non solo – a ottenere il massimo dell’autonomia regionale e, senza dirlo, arrivare poi alla totale autonomia fiscale. Così ogni Regione si tiene e spende i suoi soldi senza preoccuparsi dei deboli e inetti del Sud. Nel problema fatalmente s’intrecciano aspetti politici e aspetti tecnico-giuridici. Difatti la Gelmini tenta di nascondere nelle pieghe del tecnicismo giuridico la volontà politica di penalizzare il Mezzogiorno. In che modo? Superando i dettagli tecnici una cosa è certa: il ruolo del Parlamento è tutto sommato marginale. Esso prima esprime un parere sull’intesa raggiunta da Governo e singola Regione e poi con legge l’approva o la respinge ma non può emendarla. In pratica l’intesa prevale sulla volontà del Parlamento. Poco importa che persino il Pnrr miri soprattutto a eliminare le diseguaglianze territoriali. Le Regioni del Nord imperterrite vanno per la loro strada e insistono sulla pretesa di trasferire quante più competenze possibili dallo Stato alle Regioni. Non è bastata l’esperienza della pandemia con la frammentazione del Paese nella sanità. Naturalmente i cittadini italiani, specie del Sud, sono solo vagamente informati, sanno poco o niente degli effetti perversi sul Sud dell’intera operazione. Eppure questa tocca l’architrave della struttura costituzionale dell’Italia. Basta leggere correttamente l’art. 5 della Costituzione: «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento». È evidente che la disposizione va interpretata alla luce dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica. Riconoscere e promuovere le autonomie e il decentramento – si badi: «amministrativo» – non può voler dire spaccare il Paese. Peraltro l’art. 5 fa parte dei «Principi fondamentali» d’apertura del testo costituzionale. Viene dopo l’art. 2, per cui «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo …» e «richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale». E dopo l’art. 3: dov’è affermata l’eguaglianza non solo «formale» di tutti i cittadini, senza distinzioni personali e sociali, ma «sostanziale»: coll’imposizione alla Repubblica di eliminare gli ostacoli economici e sociali che «di fatto» limitano l’eguaglianza, impediscono lo sviluppo della persona e la partecipazione dei lavoratori all’organizzazione del Paese. E viene dopo l’art. 4 che riconosce il diritto al lavoro, promuovendone l’effettività. Com’è pensabile che l’art. 5 consenta poi un’autonomia che smentisce tutti i precedenti principi? Il disegno della Gelmini genera diseguaglianze regionali, disconosce la solidarietà politica economia e sociale e l’effettività del diritto al lavoro. Emerge allora prepotentemente la necessità di riscrivere gli artt. 116 e 117 della Costituzione, di correggere cioè l’errore del 2001 se non si vuole la spaccatura dell’Italia. Bene ha fatto Massimo Villone, già senatore e autorevole costituzionalista emerito della Federico II – spalleggiato da altri costituzionalisti di fama, del Nord e del Sud, e con l’adesione di molti politici, studiosi, intellettuali, imprenditori, sindacalisti ecc. – a scrivere una riforma delle norme predette, chiara e semplice. Una «proposta di legge costituzionale d’iniziativa popolare» per la quale è già iniziata la raccolta delle cinquantamila firme necessarie a portarla in Parlamento. Se n’è discusso ampiamente in un Convegno alla Società Napoletana di Storia Patria giovedì scorso, coll’intervento di economisti, giuristi e politici. Si sono impegnati, per esempio, il sindaco di Napoli Manfredi; il segretario metropolitano del Pd Marco Sarracino; il deputato Arturo Scotto. I cittadini del Mezzogiorno, ma anche non pochi saggi del Nord sono ora chiamati a sostenere questa proposta, sottoscrivendola e diffondendola. È questa l’unica strada per bloccare l’insana proposta della ministra degli Affari Regionali. 3 luglio 2022 | 09:18 © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-07-03 07:19:00, Mezzogiorno, 3 luglio 2022 – 09:18 di Mario Rusciano I problemi all’orizzonte della politica italiana nel prossimo (e ultimo) anno di legislatura sono molti; uno più complicato dell’altro. Ma uno in particolare è più importante degli altri, benché se ne parli poco. È il problema della cosiddetta «autonomia regionale differenziata» su cui si giocano interesse nazionale e coesione sociale del Paese. Dopo un periodo di relativo silenzio, vuole ora risolverlo la ministra degli Affari Regionali Mariastella Gelmini, che sta allestendo un «disegno di legge-quadro» da portare in Consiglio dei Ministri per l’approvazione e poi in Parlamento. È un disegno fortemente voluto dalla destra, soprattutto dalla Lega, ma caldeggiato anche dai presidenti (di centrosinistra) di Emilia-Romagna e Toscana. Ciò dimostra ancora una volta che, oltre al divario economico-finanziario, tra Nord e Sud esistono tensioni e diffidenze socio-culturali. Di qui l’imbarazzo, per esempio, del Pd e di parte della sinistra (specie del Nord), che non esprimono in materia una posizione chiara. Non parliamo poi del silenzio dei nostri «leghisti del Sud», loquaci su tante cose. Contrariamente a quanto sostiene la ministra, il suo disegno di legge non risolve e aggrava il problema. Difatti, basandosi sul titolo V della Costituzione – riformato nel 2001 dal centrosinistra per un errore storico (chiarito con precisione da Francesco Marone nell’editoriale, mercoledì scorso, del Corriere del Mezzogiorno ) – esso vuole dettare principi per soddisfare l’antica aspirazione delle Regioni del Nord – governate per lo più dalla destra, ma non solo – a ottenere il massimo dell’autonomia regionale e, senza dirlo, arrivare poi alla totale autonomia fiscale. Così ogni Regione si tiene e spende i suoi soldi senza preoccuparsi dei deboli e inetti del Sud. Nel problema fatalmente s’intrecciano aspetti politici e aspetti tecnico-giuridici. Difatti la Gelmini tenta di nascondere nelle pieghe del tecnicismo giuridico la volontà politica di penalizzare il Mezzogiorno. In che modo? Superando i dettagli tecnici una cosa è certa: il ruolo del Parlamento è tutto sommato marginale. Esso prima esprime un parere sull’intesa raggiunta da Governo e singola Regione e poi con legge l’approva o la respinge ma non può emendarla. In pratica l’intesa prevale sulla volontà del Parlamento. Poco importa che persino il Pnrr miri soprattutto a eliminare le diseguaglianze territoriali. Le Regioni del Nord imperterrite vanno per la loro strada e insistono sulla pretesa di trasferire quante più competenze possibili dallo Stato alle Regioni. Non è bastata l’esperienza della pandemia con la frammentazione del Paese nella sanità. Naturalmente i cittadini italiani, specie del Sud, sono solo vagamente informati, sanno poco o niente degli effetti perversi sul Sud dell’intera operazione. Eppure questa tocca l’architrave della struttura costituzionale dell’Italia. Basta leggere correttamente l’art. 5 della Costituzione: «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento». È evidente che la disposizione va interpretata alla luce dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica. Riconoscere e promuovere le autonomie e il decentramento – si badi: «amministrativo» – non può voler dire spaccare il Paese. Peraltro l’art. 5 fa parte dei «Principi fondamentali» d’apertura del testo costituzionale. Viene dopo l’art. 2, per cui «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo …» e «richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale». E dopo l’art. 3: dov’è affermata l’eguaglianza non solo «formale» di tutti i cittadini, senza distinzioni personali e sociali, ma «sostanziale»: coll’imposizione alla Repubblica di eliminare gli ostacoli economici e sociali che «di fatto» limitano l’eguaglianza, impediscono lo sviluppo della persona e la partecipazione dei lavoratori all’organizzazione del Paese. E viene dopo l’art. 4 che riconosce il diritto al lavoro, promuovendone l’effettività. Com’è pensabile che l’art. 5 consenta poi un’autonomia che smentisce tutti i precedenti principi? Il disegno della Gelmini genera diseguaglianze regionali, disconosce la solidarietà politica economia e sociale e l’effettività del diritto al lavoro. Emerge allora prepotentemente la necessità di riscrivere gli artt. 116 e 117 della Costituzione, di correggere cioè l’errore del 2001 se non si vuole la spaccatura dell’Italia. Bene ha fatto Massimo Villone, già senatore e autorevole costituzionalista emerito della Federico II – spalleggiato da altri costituzionalisti di fama, del Nord e del Sud, e con l’adesione di molti politici, studiosi, intellettuali, imprenditori, sindacalisti ecc. – a scrivere una riforma delle norme predette, chiara e semplice. Una «proposta di legge costituzionale d’iniziativa popolare» per la quale è già iniziata la raccolta delle cinquantamila firme necessarie a portarla in Parlamento. Se n’è discusso ampiamente in un Convegno alla Società Napoletana di Storia Patria giovedì scorso, coll’intervento di economisti, giuristi e politici. Si sono impegnati, per esempio, il sindaco di Napoli Manfredi; il segretario metropolitano del Pd Marco Sarracino; il deputato Arturo Scotto. I cittadini del Mezzogiorno, ma anche non pochi saggi del Nord sono ora chiamati a sostenere questa proposta, sottoscrivendola e diffondendola. È questa l’unica strada per bloccare l’insana proposta della ministra degli Affari Regionali. 3 luglio 2022 | 09:18 © RIPRODUZIONE RISERVATA ,

Pietro Guerra

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