Renzo Piano dona il suo archivio al Politecnico di Milano

di GIAN ANTONIO STELLA

L’architetto in cattedra tra gli studenti: «Non ho mai “insegnato” davvero. Ho però un sacco di storie da raccontare, storie vere. Che potrebbero essere interessanti»

«Ma perché?». Quasi otto decenni dopo i suoi primi cantieri dove in famiglia lo mettevano seduto su un mucchio di sabbia («Posto pericoloso un cantiere per un bambino, ma vedere ghiaia, pietre e mattoni diventare un pilastro aveva qualcosa di miracoloso»), Renzo Piano ha conficcata ancora in testa la domanda di suo padre Carlo il giorno in cui gli disse: «Voglio fare l’architetto». «“Ma perché?”, mi rispose. Non capiva. Lui aveva una piccola impresa e faceva il piccolo costruttore, suo papà aveva fatto il piccolo costruttore, i miei zii facevano i piccoli costruttori, mio fratello Ermanno studiava già ingegneria per fare il piccolo costruttore… E io, figurarsi, volevo fare l’architetto».

Cominciò così, racconta: «A quell’età devi decidere: o dici sì o te ne vai per la tua strada. A Genova architettura non c’era, dovevo scegliere fra Firenze e Milano. Scelsi Firenze perché era più lontana». Innamorato di Brunelleschi? «Qui ti voglio: dopo due anni, fatto il biennio “propedeutico” (così si chiamava) un giorno mi alzo, mi guardo allo specchio e dico: “Cosa ci faccio qui a Firenze? Questa città è troppo bella. Così bella da esser paralizzante. Che ci faccio qui?”. Decisi di passare a Milano. Confusamente pensavo già che l’architetto non progettasse solo edifici, ma si ponesse anche questioni sulla costruzione, i materiali, le tecniche…». Insomma, problemi pratici. Concreti. Che richiedessero studi, scienza e ricerca. Fu così che scelse Milano: «Forse era un po’ meno bella, ma mi interessava di più che fosse viva. Aperta. In francese c’è una parola che tiene dentro tutto: il bâtisseur è quello che costruisce, il master builder inglese…». Il nostro “costruttore”, magari associato a palazzinaro, non rende l’idea… «Io volevo fare il bâtisseur».

Arriva a Milano, si iscrive al Politecnico («Mi piaceva che promettesse più “poli”, oggi diremmo multitasking»), si tuffa nei movimenti studenteschi e nelle occupazioni delle università («Una botta di fortuna. Si cresceva respirando un’aria di libertà creativa». Libertà anche sessuale? «Imbranato completo»), comincia a rompere gli schemi più bolsi, va a bottega dall’architetto Franco Albini, che «lavorava molto sulla materia e aveva una sua poetica: la ricerca della leggerezza. Un maestro che faceva sempre delle scale che non toccavano terra… Che sfioravano il terreno…».

A farla corta, impara a studiare. Non era un secchione? «Macché, sono stato un cattivo scolaro e un pessimo liceale. Mia madre, la Rosetta, era preoccupata. Però dirò una cosa: se non cresci come il primo della classe, ma come uno degli ultimi, ti rendi conto che gli altri sono migliori di te e quindi che dagli altri c’è sempre da apprendere. È una lezione di modestia e di vita. Devo tutto all’università: è lì che sono cresciuto davvero. Che ho imparato tutto». Anche a rispondere alla domanda paterna? «Anche: era bravissimo, siamo stati legatissimi ma diversi. Faceva cose belle, ma pesanti. Io dovevo, per forza, farle leggere».

Per questo, spiega, ha deciso di donare oggi al Politecnico, per il quale aveva già progettato con Ottavio di Blasi il nuovo Campus inaugurato a metà 2021, il suo stesso archivio. Dall’aeroporto di Osaka alla torre di Sydney, dalla Columbia University a New York al tribunale di Toronto fino al viadotto San Giorgio a Genova costruito dopo il crollo del «Morandi», la Fondazione Piano possiede 1.560 metri lineari di dossier cartacei, 131 mila disegni e 20.900 schizzi censiti, 150 metri lineari di scaffali di foto e così via… Difficile spostare tutto. Il patrimonio destinato all’università milanese nei 350 metri quadrati riservati alla Fondazione però è già così ricco da diventare per gli aspiranti architetti una miniera di pepite d’oro da studiare. Proprio insieme con lo stesso Piano.

Come spiegherà oggi in una lectio magistralis nell’ateneo, infatti, dopo esser stato riverito per decenni come Maestro, il Geometra (così lo chiamano gli amici, ma non è per dileggio: lui ne va fiero) comincerà a insegnare davvero. A ottantacinque anni portati gagliardamente ha accettato di sedersi per un quinquennio in cattedra (che sarà mai!) per riversare agli studenti quanto ha imparato lui. «So quanto sia importante la cultura pedagogica italiana che accende la creatività nascosta nei giovani, da don Milani a Mario Lodi, da Loris Malaguzzi a Franco Lorenzoni: non so se ne sarò all’altezza. Tranne una breve esperienza all’Architectural Association School di Londra, ho tirato su nel mio studio e nel mio ufficio al Senato un sacco di giovani architetti, ma non ho mai “insegnato” davvero. Ho però un sacco di storie da raccontare, storie vere. Che potrebbero essere interessanti».

Dal suo incantato reportage ai Templi gemelli di Isé in Giappone (dove ogni vent’anni uno dei due viene abbattuto e pazientemente ricostruito per dare il cambio vent’anni dopo all’altro da abbattere e ricostruire in un secolare ricambio di giovani che per un terzo della vita studiano e imparano, per un terzo costruiscono il tempio nuovo, per un terzo insegnano ai nuovi allievi) fino all’importanza di cogliere nella natura l’ispirazione giusta per il progetto giusto, come sta facendo per un rifugio sul Monte Bianco ispirandosi alla scoperta che tra le rocce alpine la pirite si è aggregata nei millenni assumendo la forma di perfetti cubi argentei.

Punto di partenza della lectio, come dicevamo, il tormentone paterno: «Ma perché?». Risponderà: «Perché costruire è il mestiere più bello del mondo. Purché si parta da tre dimensioni: quella tecnica che viene dallo studio del contesto, del paesaggio, dei materiali, delle innovazioni, quella etica e quella poetica. Occorre camminare, guardare, viaggiare, scoprire, per poter andar dritto sull’obiettivo: cambiare il mondo. Dove vai a vent’anni se non hai in testa di cambiare il mondo? E così, via via, capisci che l’impegno più importante deve essere sui luoghi pubblici. In tutta la mia vita ho fatto luoghi pubblici. Biblioteche, università, scuole, musei, ospedali come quello che stiamo costruendo a Parigi…».

Ma ascolteranno, i ragazzi, l’anziano patriarca che a trent’anni, barba e capelli lunghi, maglione girocollo, strapazzò ogni concorrenza mondiale inventandosi con l’inglese Richard Rogers («eravamo due ragazzacci») il Beaubourg? «Partirò dai miei errori. Vorrei confessare reticenze, omissioni… Se riesco a essere sincero fino in fondo, perché i ventenni se ne accorgono subito quando li imbrogli, possono succedere cose miracolose. La prima sarebbe distruggere la distanza tra me e i giovani. Abbattere il muro di soggezione, diciamo pure di riverenza, che spesso esiste verso uno come me. E loro potranno sentirsi liberi di intervenire, far domande, criticare». Non rischia? «Può darsi. Ma è essenziale che capiscano, e qui devo dare io l’esempio, quanto sia importante accettare le critiche. E sa quali sono le critiche che funzionano? Quelle irritanti. Sennò non contano un fico secco».

Seconda «lezione»? «Chi fa questo mestiere deve essere consapevole che è un mestiere pericoloso. Se sbagli un libro, una tesi di diritto o un Do di petto è doloroso. Ma se rischi la vita delle persone costruendo male una casa o un ponte non te lo perdonerai mai…». Terza? «Il ping pong. È raro se non rarissimo che un genio, a una certa ora di un certo giorno, abbia un’idea folgorante. L’ho detto più volte: non vengono così, le idee. In genere si butta lì una parola, una battuta, una provocazione e poi questa passa e ripassa tra tutti come una pallina di ping pong, fino a assumere la forma di un’idea che va via via “aggiustata”». Vuol dire che «l’eureka è collettiva?». «Sì. È raro che esca dal nostro sacco. Ci si arriva insieme. Diceva Borges che ogni attività creativa “è sempre sospesa tra la memoria e l’oblio”».

Cosa c’è, di fondo, in questa scelta di riversare tanti anni di esperienze a favore degli studenti universitari? «La verità vera, se devo dirla, è che mi piace stare tra i giovani e curare queste cose, la Fondazione, il Politecnico, perché questo è l’unico modo che ho trovato per sopravvivere a me stesso. Perché tu fai tante cose nella vita, ne fai tante tante, ma quella giusta, proprio giusta, ancora non l’hai fatta, e poi trovi un momento che devi sopravvivere». È pesante, per il Renzino che giocava sulla sabbia del cantiere, tirarsi dietro un monumento come Renzo Piano? «No, non troppo perché lo vivo con leggerezza e per l’appunto sopravvivo così, regalandolo, dandolo agli altri. Non te lo devi tenere per te quel che sei. Se no non ci sopravvivi. Resti incatenato». Paura della morte? «Mah, no, no, no. Però pensi ai figli, a chi ti vuole bene, a tante cose… Certo sarebbe una bella seccatura». Troppi cantieri ancora aperti per il bâtisseur leggero…

25 novembre 2022 (modifica il 25 novembre 2022 | 09:16)

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, 2022-11-25 08:19:00, L’architetto in cattedra tra gli studenti: «Non ho mai “insegnato” davvero. Ho però un sacco di storie da raccontare, storie vere. Che potrebbero essere interessanti», GIAN ANTONIO STELLA

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