Il rischio della rassegnazione

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editoriale Mezzogiorno, 14 ottobre 2022 – 09:08 di Aldo Schiavone Questo dopo-elezioni pieno di incognite e di preoccupazioni non sta portando buone nuove per il Mezzogiorno. Già durante la campagna elettorale avevamo visto (e denunciato) come il Sud fosse completamente sparito dalla visibilità della politica, confermando del resto un’assenza che dura da troppo tempo: quasi non fosse invece il problema più grave che il Paese si trascina fin dalla sua unità. Soltanto negli ultimi giorni prima del voto la memoria era sembrata d’improvviso tornare: ma in modo così strumentale da risultare persino scomposto e offensivo – chiaramente al fine di raccogliere affannosamente consensi dell’ultima ora – per poi svanire di nuovo appena chiuse le urne. Nemmeno dai vincitori è venuta una parola: il che è almeno sorprendente per chi si è proposto di cambiar volto all’Italia, e poi invece si lascia subito schiacciare unicamente sulle emergenze economiche, che certamente esistono, sono assai difficili e vanno fronteggiate, ma alle quali non bisogna fermarsi, se davvero si vuole trasformare in profondità il nostro costume pubblico, e il rapporto di fiducia fra i cittadini e lo Stato. Nell’indifferenza generale – a cominciare da quella degli stessi meridionali – il Mezzogiorno continua così a staccarsi in silenzio dal resto del Paese. Anche il risultato elettorale ha fotografato con la crudezza delle sue nude cifre l’esistenza, ormai purtroppo non solo abbozzata, di due popoli, di due società, di due diversi modi di riferirsi alla politica; starei per dire: di due diversi modi di pensare la vita – a partire (come temevamo) dall’astensionismo, che testimonia di uno scollamento al di là del quale è la democrazia stessa a essere messa a rischio in questa parte del Paese. E la cosa peggiore, confermata in modo sconfortante dai comportamenti di queste settimane, è che si sta dovunque consolidando un sentimento di rassegnazione – se non proprio di tranquilla accettazione – di fronte a questa realtà. Una disunione prima politicamente occultata dall’adesione omogenea e unificante – al Nord come al Sud – ai grandi partiti di massa, ma oggi sempre più considerata come un dato di fatto evidente, dal quale sarebbe irrealistico proporsi di tornare indietro, e che andrebbe preso (secondo molti) per quello che è: l’esito di un processo ormai irreversibile, al quale non rimarrebbe che acconciarsi. Non ho esitazioni a dire che se fosse davvero così, se non ci fosse veramente altro da fare, saremmo perduti: tutti, senza scampo, in ogni angolo del nostro Paese. Perché un’Italia spezzata è un’Italia che non va da nessuna parte; e un’Italia nel suo insieme lontana dal Mediterraneo non può che essere destinata a una condizione di minorità, sempre più accentuata e definitiva. Oggi il nostro compito storico è quello di riequilibrare a sud l’asse d’Europa, ed è impossibile pensare di adempierlo senza un Mezzogiorno in piedi, riunito finalmente al resto della Penisola. Se la situazione è questa, credo che le istituzioni meridionali – proprio in un simile momento, mentre si sta varando un governo che comunque segnerà una discontinuità non di poco conto nel nostro cammino, e che alcuni già definiscono (speriamo sbagliando) «nordista» – debbano far sentire con forza e autorevolezza la propria voce, richiamando ciascuno – ceto politico e cosiddetta società civile – alle proprie responsabilità. E mi chiedo perché non possa essere proprio Napoli, il suo sindaco, la sua amministrazione, a prendere l’iniziativa per aprire una nuova pagina nella dialettica politica del Mezzogiorno, per provarsi ad aprire una nuova stagione. Cominciando, per esempio, con l’indire una Conferenza delle grandi città meridionali – da Bari a Reggio, a Catania, a Palermo – nella quale fare il punto sullo «stato dell’unione» della Repubblica, per poi consegnare al nuovo Governo un’indicazione di priorità, di obiettivi, di urgenze, per delimitare un terreno comune su cui lavorare. Si potrebbe iniziare dall’attuazione del Pnrr (che proprio a Napoli fatica a decollare: qui, secondo gli ultimi dati, su 66 progetti approvati, si avvieranno tra poco i lavori in solo 2 cantieri: una proporzione a che è poco definire allarmante). E poi: legalità, sanità, istruzione, mobilità urbana, giovani, lavoro, cultura. Questo modo di procedere sarebbe il segno di una svolta, per un tentativo di ricomposizione meridionale indispensabile in una condizione come l’attuale, dove, pur senza nulla togliere alle differenze e alle specificità di ciascuna area urbana in un Sud ormai strutturalmente plurale, rimane tuttavia essenziale ricostituire uno schieramento coordinato di analisi, di proposte, di strategie. E sarebbe bello e importante che in un’iniziativa come questa (o simile a essa) fosse coinvolta nelle maniere più opportune (tutte da studiare) anche la nostra Regione, il cui Presidente però sembra in tutt’altre faccende affaccendato (a proposito delle quali su questo giornale Marco Demarco ha scritto cose che condivido dalla prima all’ultima, sulle quali sarebbe bene che tutti, proprio tutti, riflettessero con attenzione). Questo meno che mai è il momento di giochi personali o di calcoli politici di corto respiro. Né tantomeno di demagogie improvvisate, aderire alle quali peggiora solo il quadro in cui ci muoviamo. È il momento di scelte forti e responsabili, e di saper guardare lontano. Così facendo spesso in politica si salva anche sé stessi, chi ancora può sperare di farlo. 14 ottobre 2022 | 09:08 © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-10-14 07:09:00, editoriale Mezzogiorno, 14 ottobre 2022 – 09:08 di Aldo Schiavone Questo dopo-elezioni pieno di incognite e di preoccupazioni non sta portando buone nuove per il Mezzogiorno. Già durante la campagna elettorale avevamo visto (e denunciato) come il Sud fosse completamente sparito dalla visibilità della politica, confermando del resto un’assenza che dura da troppo tempo: quasi non fosse invece il problema più grave che il Paese si trascina fin dalla sua unità. Soltanto negli ultimi giorni prima del voto la memoria era sembrata d’improvviso tornare: ma in modo così strumentale da risultare persino scomposto e offensivo – chiaramente al fine di raccogliere affannosamente consensi dell’ultima ora – per poi svanire di nuovo appena chiuse le urne. Nemmeno dai vincitori è venuta una parola: il che è almeno sorprendente per chi si è proposto di cambiar volto all’Italia, e poi invece si lascia subito schiacciare unicamente sulle emergenze economiche, che certamente esistono, sono assai difficili e vanno fronteggiate, ma alle quali non bisogna fermarsi, se davvero si vuole trasformare in profondità il nostro costume pubblico, e il rapporto di fiducia fra i cittadini e lo Stato. Nell’indifferenza generale – a cominciare da quella degli stessi meridionali – il Mezzogiorno continua così a staccarsi in silenzio dal resto del Paese. Anche il risultato elettorale ha fotografato con la crudezza delle sue nude cifre l’esistenza, ormai purtroppo non solo abbozzata, di due popoli, di due società, di due diversi modi di riferirsi alla politica; starei per dire: di due diversi modi di pensare la vita – a partire (come temevamo) dall’astensionismo, che testimonia di uno scollamento al di là del quale è la democrazia stessa a essere messa a rischio in questa parte del Paese. E la cosa peggiore, confermata in modo sconfortante dai comportamenti di queste settimane, è che si sta dovunque consolidando un sentimento di rassegnazione – se non proprio di tranquilla accettazione – di fronte a questa realtà. Una disunione prima politicamente occultata dall’adesione omogenea e unificante – al Nord come al Sud – ai grandi partiti di massa, ma oggi sempre più considerata come un dato di fatto evidente, dal quale sarebbe irrealistico proporsi di tornare indietro, e che andrebbe preso (secondo molti) per quello che è: l’esito di un processo ormai irreversibile, al quale non rimarrebbe che acconciarsi. Non ho esitazioni a dire che se fosse davvero così, se non ci fosse veramente altro da fare, saremmo perduti: tutti, senza scampo, in ogni angolo del nostro Paese. Perché un’Italia spezzata è un’Italia che non va da nessuna parte; e un’Italia nel suo insieme lontana dal Mediterraneo non può che essere destinata a una condizione di minorità, sempre più accentuata e definitiva. Oggi il nostro compito storico è quello di riequilibrare a sud l’asse d’Europa, ed è impossibile pensare di adempierlo senza un Mezzogiorno in piedi, riunito finalmente al resto della Penisola. Se la situazione è questa, credo che le istituzioni meridionali – proprio in un simile momento, mentre si sta varando un governo che comunque segnerà una discontinuità non di poco conto nel nostro cammino, e che alcuni già definiscono (speriamo sbagliando) «nordista» – debbano far sentire con forza e autorevolezza la propria voce, richiamando ciascuno – ceto politico e cosiddetta società civile – alle proprie responsabilità. E mi chiedo perché non possa essere proprio Napoli, il suo sindaco, la sua amministrazione, a prendere l’iniziativa per aprire una nuova pagina nella dialettica politica del Mezzogiorno, per provarsi ad aprire una nuova stagione. Cominciando, per esempio, con l’indire una Conferenza delle grandi città meridionali – da Bari a Reggio, a Catania, a Palermo – nella quale fare il punto sullo «stato dell’unione» della Repubblica, per poi consegnare al nuovo Governo un’indicazione di priorità, di obiettivi, di urgenze, per delimitare un terreno comune su cui lavorare. Si potrebbe iniziare dall’attuazione del Pnrr (che proprio a Napoli fatica a decollare: qui, secondo gli ultimi dati, su 66 progetti approvati, si avvieranno tra poco i lavori in solo 2 cantieri: una proporzione a che è poco definire allarmante). E poi: legalità, sanità, istruzione, mobilità urbana, giovani, lavoro, cultura. Questo modo di procedere sarebbe il segno di una svolta, per un tentativo di ricomposizione meridionale indispensabile in una condizione come l’attuale, dove, pur senza nulla togliere alle differenze e alle specificità di ciascuna area urbana in un Sud ormai strutturalmente plurale, rimane tuttavia essenziale ricostituire uno schieramento coordinato di analisi, di proposte, di strategie. E sarebbe bello e importante che in un’iniziativa come questa (o simile a essa) fosse coinvolta nelle maniere più opportune (tutte da studiare) anche la nostra Regione, il cui Presidente però sembra in tutt’altre faccende affaccendato (a proposito delle quali su questo giornale Marco Demarco ha scritto cose che condivido dalla prima all’ultima, sulle quali sarebbe bene che tutti, proprio tutti, riflettessero con attenzione). Questo meno che mai è il momento di giochi personali o di calcoli politici di corto respiro. Né tantomeno di demagogie improvvisate, aderire alle quali peggiora solo il quadro in cui ci muoviamo. È il momento di scelte forti e responsabili, e di saper guardare lontano. Così facendo spesso in politica si salva anche sé stessi, chi ancora può sperare di farlo. 14 ottobre 2022 | 09:08 © RIPRODUZIONE RISERVATA ,

Pietro Guerra

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