Russel Crowe: «Da cameriere in Australia a Hollywood. Sono la prova vivente che tutto è possibile»

Russel Crowe: «Da cameriere in Australia a Hollywood. Sono la prova vivente che tutto è possibile»

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di Matteo Persivale

Fuma, dice tante parolacce (anche in italiano) e grazie a un metodo tutto suo è diventato uno degli attori più famosi del mondo: «Non imito nessuno emi sforzo di non essere mai finto. Come quella volta dei capelli…»

« Usciamo, che dici?». Non si dice no a Massimo Decimo Meridio, comandante dell’esercito del Nord, generale delle legioni Felix, servo leale dell’unico vero imperatore Marco Aurelio: anche se oggi il gladiatore ha la barba grigia di Zeus e indossa un bell’abito italiano, i bicipiti sono quelli dei bei tempi, contenuti a malapena dal fresco lana blu color notte da amministratore delegato, e così l’intervista programmata sui divani di una bella sala conferenze in un albergo extralusso a pochi passi da Trinità dei Monti a Roma viene trasferita, d’imperio, all’esterno. Esterno che in questo caso non può essere necessariamente in strada, per evitare il bagno di folla tra i turisti, ma in una piccola area di pochi metri quadrati, quasi un ballatoio, dove il personale delle pulizie deposita secchi, scopettoni, stracci, e vengono accatastate le seggiole in eccesso della sala conferenze. «Ecco qua», dice Russell Crowe porgendo in scioltezza una sedia all’intervistatore – ha le mani del gladiatore, simili a delle vanghe – mentre si accomoda sereno accanto a un grosso lavapavimenti rotante in microfibra appoggiato al muro.

Macché Covid, all’aperto per poter fumare

Scopo del trasferimento: non tanto respirare aria fresca, che è sempre una buona cosa in tempi di Covid (tempi nei quali prima di avvicinarsi seppur con mascherina alle star di Hollywood si viene sottoposti a tampone nasofaringeo) ma più che altro permettere all’intervistato di accendere, inalando golosamente, una sigaretta. Un gesto normale, se non fosse per la stranezza di vedere attraverso una leggera coltre di fumo l’uomo che ha incarnato sullo schermo nell’Insider di Michael Mann il chimico Jeffrey Wigand, che negli Anni 90 inguaiò l’industria del tabacco rivelandone i meccanismi produttivi e di marketing fino a quel momento invisibili al pubblico. «Lo so» ride Russell Crowe «che ci vuoi fare? Fumo fin da ragazzo, e pensare che in passato avevo anche smesso, per un po’… La mia vita è cambiata con L.A. Confidential di Curtis Hanson, non c’è dubbio, e con Ridley Scott ho sempre avuto un rapporto speciale in tutti questi anni (cinque film insieme, dal 2000 al 2010: Il gladiatore, Un’ottima annata, American Gangster, Nessuna verità, Robin Hood; ndr) ma Insider resta un film al quale sono molto legato. Al di là delle sigarette».

«QUANDO SONO A ROMA MI SENTO UN PO’ LO ZIO DI TUTTI PERCHÉ TUTTI MI HANNO FATTO SENTIRE SUBITO COME SE FOSSI UNO DI LORO»

Crowe si fa serio alla domanda – scherzosa – se preferisce essere chiamato “ambasciatore”, visto che l’incontro con 7 è avvenuto poche ore dopo l’affaccio dal balcone dello studio del sindaco Roberto Gualtieri sui Fori imperiali, culmine della cerimonia di consegna dell’onorificenza che ha reso l’attore “Ambasciatore della città di Roma nel mondo”. «È una cosa che mi ha sinceramente sorpreso e commosso: un onore, soprattutto una grande responsabilità. Essere testimone di questa storia millenaria, di questo patrimonio immenso di cultura… Fatico a esprimere la mia riconoscenza, come ho detto al sindaco sarò sempre al vostro servizio. Da subito i romani mi hanno fatto sentire uno di loro, con la loro umanità speciale: ormai in strada sento un ahò che mi viene rivolto a alta voce e rispondo la stessa cosa… Sono anch’io romano ormai – anche se vengo dall’altra parte del mondo».

Quanti divi di Hollywood si comporterebbero così? Quanti non soltanto riderebbero di gusto davanti a un giovane fan che dice loro “te perdóno pure che sei laziale” ma soprattutto gli risponderebbero romanescamente “Esticazzi”? «Mi sento un po’ lo zio di tutti, quando mi ritrovo qui tra i romani. Ho partecipato a una conferenza l’altro giorno con gli studenti, ho un po’ scherzato ma ho consigliato loro una cosa: non lasciate che qualcuno vi dica che certe cose sono impossibili da realizzare. È così, io sono la prova vivente di questo fatto». È venuta giù la sala dagli applausi. «Sì, mi vogliono bene. Qui la gente è sinceramente felice di vedermi».

«’POKER FACE’? IL REGISTA È ANDATO VIA, SONO SUBENTRATO, RISCHIAVANO IL POSTO 300 PERSONE. SON CRESCIUTO TRA GLI IMMIGRATI, NON A HOLLYWOOD»

Crowe era a Roma per presentare il suo nuovo film, del quale è regista oltre che interprete, Poker Face, nei cinema il 24 novembre, distribuzione Vertice 360. Un miliardario – reso ricco dal settore tech – organizza una partita a poker con gli amici, con una posta decisamente insolita. È all’apparenza un thriller, ma un thriller atipico, che dice cose molto serie sulla vita, sul lutto, su quello che lasciamo alle nostre spalle, con un finale che colpisce al cuore. «Come regista, è il tema che più mi interessa: il dolore per la scomparsa di qualcuno che amiamo». I finanziatori che dicono? Al netto che Crowe è regista di sé stesso, e il Crowe attore vende biglietti automaticamente, il tema del lutto non è esattamente una calamita per il pubblico.

«Un’esperienza che non consiglio a nessuno»

«Nel primo film che ho diretto, The Water Diviner, otto anni fa, la storia vera di un padre australiano che va fino a Gallipoli nel 1919 per riportare a casa i figli caduti, c’era il tema della guerra, e i film di guerra sono più semplici da vendere, hanno sempre un loro mercato, difficile sbagliare. Questo Poker Face? Be’, l’abbiamo girato durante il lockdown per questa cazzo di pandemia, lavorare era quasi impossibile, e io sono subentrato a un regista che a sole cinque settimane dal primo ciak si era chiamato fuori, un’esperienza che non consiglio a nessuno. Mio padre era morto da poco. Quasi trecento persone della troupe sarebbero rimaste senza lavoro, quella è gente che si guadagna il pane, non parliamo di celebrities, parliamo di gente normale. Pertanto, no, ci mancava solo che i produttori mi rompessero anche le palle. Non mi interessava raccontare una storia di cazzate hollywoodiane, un film d’azione, vuoto».

«L’EGO CI VUOLE: RECITARE È CONVIVERE CON LA DELUSIONE, CON IL FALLIMENTO, CON IL FATTO CHE UN LAVORO CHE SOGNAVI FINISCE A UN ALTRO»

Il cast è di lusso: oltre a Crowe, Liam Hemsworth, RZA che partendo da rapper del mitologico Wu-Tang Clan è diventato un attore interessante, Brooke Satchwell, Aden Young. Vent’anni dopo, è giusto ricordare ai più giovani come Crowe sia stato assolutamente dominante nel cinema americano dell’inizio del secolo. Le copertine delle riviste, idolo di milioni di donne etero e uomini gay, molto bello, divo da grandi incassi al box office ma anche – combinazione molto rara – grande interprete: tre nomination all’Oscar come miglior attore protagonista in tre anni (2000, 2001, 2002) e una vittoria (per Il gladiatore), quello che gli americani chiamano, mutuando un termine dallo sport, threepeat. Una categoria, quella della tripletta di nomination consecutive, riservata soltanto a dieci divinità del cinema: Spencer Tracy, Gary Cooper, Gregory Peck, Marlon Brando, Richard Burton, Al Pacino, Jack Nicholson, William Hurt. Dopo Crowe c’è riuscito solo Bradley Cooper. Eppure Crowe è diverso, il pubblico lo percepisce a pelle, anche prima della sua partecipazione alla Festa del Cinema di Roma, dove ha presentato Poker Face. Perché il pubblico lo sente così diverso dai colleghi? Zero capricci, niente chirurgia estetica (dimostra la sua età), niente stylist, niente precondizioni alle interviste, niente liberatorie da firmare o accordi di confidenzialità sui contenuti fino a una certa data.

«LA FAMA MONDIALE? ME NE SONO RESO CONTO LA PRIMA VOLTA CHE MI HANNO DETTO CHE DOVEVO METTERE UN CAZZO DI VESTITO ELEGANTE ALTRIMENTI NON POTEVO ENTRARE NEI CLUB DEI RICCHI»

«Perché non sono americano. Perché non vivo a Hollywood. Perché non vado alle feste dei produttori. Sono nato in Nuova Zelanda, vivo in Australia, in una fattoria, a sei ore e mezza di macchina da Sydney, otto ore se guidi normalmente (sorride; ndr). Sono cresciuto in mezzo agli immigrati. Dico le parolacce. Anche in italiano, ormai. La prima volta che mi hanno detto che dovevo mettere un cazzo di vestito elegante altrimenti non potevo entrare nei club dei ricchi mi son detto, che cazzo sta succedendo? Prima mi vestivo come capitava. In un certo senso non me ne capacito neanche adesso, dopo tutti questi anni, di quello che è successo». È successa la fama globale. «Una volta, la mamma era al lavoro, al catering per la troupe che stava girando una serie tv. Ero andato a trovarla. Avevo sei anni. 1970. Mancava un bambino, per una piccola parte, praticamente da comparsa, e mia mamma ha detto: se avete bisogno c’è lui. Non sono mai andato a scuola di recitazione. Da adolescente ho cominciato a suonare con una band. Poi un po’ di teatro, i classici, Shakespeare, ma soprattutto facevo musical, il mercato chiedeva quello: Grease, e 415 serate di Rocky Horror Picture Show, nelle more per mantenermi facevo il dj, il barman. Anche il cameriere, spesso nella stessa serata, dopo uno show».

La performance si studia anche tra i tavoli

Era bravo? «Come cameriere? Cazzo sì, ero un bravo cameriere, correvo come un matto. Come attore? Diciamo che cercavo di imparare. Soprattutto una cosa: la performance. Esibirsi, dal vivo, davanti a un pubblico. Teatro, suonare rock, fare il dj. Contava la performance. È tuttora la mia passione. Più del cinema. Però scrivere canzoni è un’altra mia passione, ma non ci campo. Insomma da ragazzo, guardando gli attori professionisti, al cinema, in tv, coltivando questa passione assoluta, da un lavoretto ne è nato un altro. E alla fine, a 25 anni, l’occasione della vita: Blood Oath, un film di guerra, una piccola parte. Ma bastava quella». Bastava quella, quando uno è bravo e carismatico come Crowe: due anni dopo, ecco il primo ruolo da protagonista, lo skinhead di Romper Stomper, difficile da dimenticare. Tre anni dopo era già a Hollywood, Pronti a morire, con Sharon Stone al vertice della fama e un altro emergente, un certo Leonardo DiCaprio.

«Quel giorno che smisero di pagarmi l’hotel»

Da lì a L.A. Confidential e Insider è stata una strada in discesa? «Magari. Il regista voleva me, uno sconosciuto, anche se i produttori pretendevano una grande star già affermata, uno che aveva già vinto l’Oscar, e me ne stavo lì in un bell’albergo a Los Angeles aspettando l’inizio delle riprese quando a un certo punto smettono di pagarmi il conto dell’albergo e lì capisco che butta molto male. Io tra l’altro allora non avevo risorse per pagarmelo da solo, l’albergo. Però alla fine ha vinto il regista, il film l’ho fatto io. Anche se inizialmente ero molto molto insicuro. La sceneggiatura diceva che il mio personaggio era un gigante, il poliziotto più spaventoso di Los Angeles, dalla forza mostruosa. Mi vedi, sono di statura media… ma è andato tutto bene. È un bel film».

Se hai successo, non devi perdere la testa

Come si gestisce la fama? L’effetto sull’ego? «L’ego ci vuole, soprattutto in questo mestiere, perché recitare è convivere con la delusione, con il fallimento, con la necessità di digerire che un lavoro che sognavi è finito a qualcun altro. L’ego ti aiuta a difenderti, è uno scudo, o meglio un’intercapedine tra te e la delusione. Certo non devi perdere la testa. Però se sei un attore, il mestiere che fai è sottomettere te stesso al personaggio. C’è chi lo vede come un sacrificio, ma se mi chiedono che mestiere faccio dico: reggo la tavolozza dei colori di Ridley Scott. Mica male, eh?». Crowe è un attore autodidatta ma ha affinato un metodo personalissimo, basato sulla messa a punto dei particolari come chiave di volta di un’interpretazione. «Insider era una storia vera ma non ho voluto conoscere prima Jeffrey Wigand, non sono un imitatore. Avevo il problema dell’età, lui aveva 25 anni più di me, era uno scienziato con la pancia e io allora ero magro, e sono ingrassato apposta, un’altra cosa che non consiglio. Ma i capelli non funzionavano, più me li tingevano di grigio e li sfoltivano col rasoio più mi sembravano finti. Mi sembravo finto».

I capelli da vecchio «come Dante Spinotti»

«Un giorno stavamo facendo una prova e dico al regista, Michael Mann: vorrei avere i capelli da vecchio, come quelli di Dante. E indico Dante Spinotti, il direttore della fotografia». E lui? «E lui si è incazzato, chiedeva: cosa hanno che non va, i miei capelli? Poi però mi hanno fatto una parrucca uguale ai capelli di Dante, e ho trovato il personaggio. Povero Dante: nella foga del momento ci rimase male, ma è una persona deliziosa e un grande direttore della fotografia. Sa che quella volta la produzione, nella campagna per gli Oscar, voleva sostenere Pacino, co-protagonista insieme con me, ma lui disse “date una mano al ragazzo, è il suo turno”? Quella è generosità vera, una lezione che non ho dimenticato».

Quello Zeus con l’accento british

Crowe fuma, dice le parolacce, e in Thor: Love and Thunder ispirato al fumetto Marvel è uno Zeus umano troppo umano. «In quel caso il problema del personaggio era l’accento: il regista voleva l’accento oxfordiano, ma che c’entrano gli dei dell’Olimpo con l’Inghilterra? Allora abbiamo fatto in due modi, ho usato l’accento che voleva il regista ma abbiamo rifatto le stesse scene con un accento greco, cosa che al giorno d’oggi fa agitare le persone (nel mondo anglosassone c’è un dibattito molto serio sulla cosiddetta appropriazione culturale, che vieterebbe imitazioni di gruppi etnici ai quali non si appartiene; ndr)». E alla fine? «Alla fine hanno fatto come dicevo io».

18 novembre 2022 (modifica il 18 novembre 2022 | 07:31)

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, 2022-11-18 07:11:00, Fuma, dice tante parolacce (anche in italiano) e grazie a un metodo tutto suo è diventato uno degli attori più famosi del mondo: «Non imito nessuno emi sforzo di non essere mai finto. Come quella volta dei capelli…», Matteo Persivale

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