San Siro non può finire in macerie

San Siro non può finire in macerie

Spread the love

di Aldo Cazzullo

Il dibattito sulla sorte dello stadio dei milanesi. Non possono essere un fondo americano e un miliardario cinese a decidere

Se Massimo Moratti e Ignazio La Russa, se Sgarbi e Zeman dicono la stessa cosa, una ragione ci sarà. San Siro non può morire. Con tutto il rispetto, non possono essere un fondo americano e un miliardario cinese a decidere la sorte dello stadio dei milanesi.

Com’è noto, noi italiani — a parte l’immortale romanzo di un milanese — non abbiamo una grande tradizione di letteratura popolare. Non abbiamo avuto Balzac e Dumas, Dickens e Tolkien, Tolstoj e Dostoevskij. Però abbiamo avuto Meazza e Piola, Mazzola e Rivera, Van Basten e Rummenigge, e anche Brera e Arpino. Il nostro vero romanzo popolare è il calcio. E le pagine più memorabili del libro si sono scritte a San Siro.

Davvero un quarto d’ora di Corso valeva più di novanta minuti di Domenghini, come sentenziò lady Renata Fraizzoli, provocando la fuga di «Bergheim» (così lo chiamava appunto Brera) al Cagliari dove vinse lo scudetto? Davvero Antonio Valentin Angelillo, uno dei tre Angeles de la cara sucia (gli altri due angeli con la faccia sporca erano Maschio e Sivori), aveva smarrito la via del gol dopo averne segnati 33 in un anno perché si era perdutamente innamorato della cantante Ilya Lopez, che si chiamava in realtà Attilia Tironi, era di Brescia e aveva fatto girare la testa pure al Mago Herrera? Davvero Nils Liedholm ebbe la più grande ovazione dai milanisti quando sbagliò un passaggio? (Sul serio, Barone? «Sul serio. Ma erano tre anni e tre mesi che non sbagliavo un passaggio». Così tanto? «Lo giuro. E ogni volta che lo racconto, aggiungo un mese»). Davvero Benito «Veleno» Lorenzi era legatissimo ai piccoli Sandro e Ferruccio Mazzola perché si sentiva in colpa per la morte del padre? (Il presidente del Toro Ferruccio Novo aveva detto a capitan Valentino: «Vi lascio andare a giocare l’amichevole a Lisbona solo se domenica a San Siro pareggiate con l’Inter e vinciamo matematicamente lo scudetto». A metà del secondo tempo Lorenzi si era mangiato un gol davanti a Bacigalupo, la partita finì zero a zero, Novo diede il permesso di partire, e Lorenzi non se lo perdonò mai: «Se avessi segnato sarebbero ancora tutti vivi»).

Se San Siro potesse parlare, racconterebbe questa e mille altre storie. Anzi, San Siro ha una voce; ed è quella dei tifosi. Che non hanno sempre ragione, che vent’anni fa rischiarono di fare strage lanciando una moto — un booster forse rubato a un ultrà dell’Atalanta — giù dal terzo anello al coro di «bergamasco contadino non c’è più il tuo motorino», che ancora pochi giorni fa hanno compiuto un inaccettabile rito tribale; ma che nei decenni hanno accumulato tali e tante stratificazioni di passione da rendere San Siro non solo un monumento storico — quale è, secondo il nuovo sottosegretario al Patrimonio — ma anche un tempio. E i templi non si abbattono. Semmai si riedificano.

I madridisti non hanno abbattuto il Santiago Bernabeu; l’hanno reso più bello di prima. Certo, ristrutturare uno stadio dove giocano due squadre è più difficile che ristrutturare uno stadio dove ne gioca una sola; ma non è impossibile. Certo, l’economia ha le sue leggi. Però siamo sicuri che abbia senso demolire San Siro per ricostruirne una versione più moderna ma senz’anima proprio lì accanto? Oppure fare di San Siro una cattedrale sconsacrata costruendo altrove non uno ma due stadi, come se Milano fosse il Qatar? Semmai «Milano quel giorno era Giamaica», come canta Venditti in memoria dello storico concerto di Bob Marley.

Perché San Siro non è solo calcio. I riti officiati da Vasco Rossi ne sono stati solo l’ultimo esempio. A San Siro generazioni di milanesi e di italiani — migliaia dei quali sono diventati milanesi — si sono incontrati, conosciuti, amati, combattuti, riappacificati, «sull’erba morta, con il freddo che fa qui»; chiedendosi con Vecchioni, non a caso contrarissimo sull’abbattimento, «ma questa gente intorno a noi che cosa fa?». Americani e cinesi pensassero a rilanciare Milan e Inter; e ci lasciassero il nostro stadio.

Ogni due settimane un padre, Claudio Mussi, va a San Siro con il figlio Matteo. Matteo è cieco, e il papà gli fa la telecronaca della partita in sussurri, raccontandogli all’orecchio le azioni; e quando San Siro esplode in un boato, padre e figlio si abbracciano. Un luogo dov’è accaduta e dove accade una scena come questa lo si fa patrimonio dell’umanità, con o senza l’Unesco; non lo si butta giù.

13 novembre 2022 (modifica il 13 novembre 2022 | 22:38)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

, 2022-11-13 21:40:00, Il dibattito sulla sorte dello stadio dei milanesi. Non possono essere un fondo americano e un miliardario cinese a decidere, Aldo Cazzullo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.