Scuola, Lucangeli: «Iniziamola senza paure e stress, ma con iniezioni di fiducia e anche lacrime, se serve»

Scuola, Lucangeli: «Iniziamola senza paure e stress, ma con iniezioni di fiducia e anche lacrime, se serve»

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di Valentina Santarpia

Gli studi sulla warm cognition dimostrano che accompagnare l’entusiasmo e la positività all’apprendimento facilita gli studi. La neuroscienziata: «La scuola italiana invece inculca paura e colpa: ecco come liberarsene»

«Ragazzi caricati, ingolfati come se fossero contenitori da riempire con schede, compiti, messaggi e materiali fino a sera»: ecco come arrivano gli studenti alla vigilia dell’inizio dell’anno scolastico, secondo Daniela Lucangeli, professoressa di Psicologia dello sviluppo all’Università degli Studi di Padova, presidente Nazionale CNIS (Associazione per il Coordinamento Nazionale degli Insegnanti Specializzati), membro di associazioni scientifiche nazionali e internazionali, tra cui l’Accademia Mondiale delle Ricerche sulle difficoltà di apprendimento (IARLD).

Professoressa, cosa chiediamo ai nostri studenti?

«Continue prestazioni. Colpa e paura sono le emozioni alla base del nostro sistema educativo. Ma tutto ciò tiene i ragazzi in costante allerta e produce un cortocircuito emozionale che genera malessere e inceppa l’apprendimento».

E invece come dovrebbe essere?

«
Ci vorrebbe una maggiore consapevolezza dei sistemi di apprendimento, maturazione e qualità psichica. A scuola, come nella vita, cresce ciò che semini. Quindi un insegnante che vuole far crescere l’intelligenza deve seminare l’intelligenza; se vuol far crescere il benessere, deve seminare il benessere; se vuol far nascere la fiducia, deve seminare la fiducia. Per questo dal giugno scorso “mi sono messa in cammino” attraversando tutta Italia lungo la via Francigena, da Aosta a Matera (dove arriveremo il 14 settembre) organizzando conferenze, congressi e spettacoli. La “Scienza Servizievole in cammino”, così l’abbiamo chiamata, aveva proprio come obiettivo quello di mettere a disposizione le conoscenze e le ricerche più utili, nel mondo della pedagogia, della psicologia e delle neuroscienze, al servizio di educatori, insegnanti, operatori sociali, ricercatori e clinici ma anche delle famiglie e di tutti coloro che mostrano interesse verso il tema dell’educazione».

Come è secondo lei un bravo insegnante?

«È magister, è colui che aiuta ad apprendere, che dà fiducia e coraggio, e che non soltanto giudica e verifica quanto le informazioni fornite sono passivamente mantenute in memorie prestazionali. A tal proposito, mi viene in mente una frase celebre pedagogista sovietico Lev Semënovič Vygotskij che recita così: “Diventiamo noi stessi attraverso gli altri”. Ecco, questo pensiero dovrebbe ricordare a insegnanti e educatori che con il loro lavoro hanno delle enormi responsabilità ma anche immense potenzialità: in ogni istante della loro azione educativa stanno lasciando un segno in una persona che sta costruendo non soltanto un bagaglio di nozioni e procedure, ma il proprio Sé, la propria intelligenza, la struttura del suo pensiero, l’organizzazione del suo sentire e la percezione del proprio talento. Non è romanticismo, ma scienza».

In che senso?

«Negli ultimi anni si è sviluppato un nuovo filone di ricerca scientifica, a cui è stato dato il nome di warm cognition, letteralmente “cognizione calda”. Abbiamo imparato che le nozioni si stabilizzano insieme alle emozioni e quest’ultime, a loro volta, influiscono concretamente sui processi cognitivi, come attenzione, memoria, comprensione. Significa che se un bambino impara con curiosità, interesse, impara di più e meglio. Se è sostenuto, guardato e incoraggiato da un insegnante che si pone come suo alleato, nella sua memoria resterà traccia dell’emozione positiva, portatrice del messaggio: ”Ti fa bene, continua a cercare”».

E se invece i ragazzi sono impauriti?

«Al contrario, tutto quello che il bimbo impara con paura, ansia, angoscia, genera delle memorie che lo tengono in costante allerta e produce un cortocircuito emozionale tale da ingolfare l’apprendimento stesso: lo studente si blocca e non riesce più a imparare. Anche il corpo lo manifesta, e lo stress si mostra a tutti i livelli, dall’ alterazione dei comportamenti all’attivazione del cortisolo, e degli stati infiammatori generali. Basti pensare che l’ormone dello stress, quando aumenta eccessivamente, può portare a una crescita dei valori glicemici, un abbassamento delle difese immunitarie e persino alterazioni della risposta infiammatoria».

Come potrebbe la scuola usare queste nozioni?

«Se io mentre imparo la tabellina del 7 sperimento la fiducia del mio insegnante nelle mie capacità, metto in memoria sia quello che lui mi ha insegnato, sia la sua fiducia; ogni volta che riapro il cassetto della memoria che contiene la tabellina del 7, riprendo anche la sua fiducia, che mi dà incoraggiamento. Se invece la imparo con paura, ogni volta che dovrò ripeterla il mio cervello mi dirà “Scappa da lì!”. Il circuito legato all’emozione di paura è regolato infatti da un sistema ancestrale della nostra specie (sistema limbico): sono strutture del cervello antichissime che regolano reazioni che abbiamo da milioni di anni. Nella scuola che vorrei gli insegnanti puntano a ridurre gli stati di paura incoraggiando le emozioni che nutrono l’apprendimento, che stimolano l’interesse, la curiosità, il senso di completezza di sé, la percezione di affrontare una sfida commisurata alle proprie possibilità».

Ma anche gli insegnanti e le famiglie a volte brancolano nel buio…

«Dentro l’assenza di luce molto spesso si nasconde una mancanza di speranze. Ecco perché credo ci serva una rivoluzione pacifica che ci permetta di rieducare noi stessi e educare i nostri figli a connettersi con le emozioni, integrarle e portarle fuori di sé. A partire dal pianto».

Dovremmo piangere di più?

«No, certo che no. Ma Michael Trimble, neurologo comportamentale e professore emerito allo University College di Londra, si è molto occupato di psicologia del pianto. Con i suoi esperimenti ci ha spiegato che, perché si verifichi il pianto, ci deve essere un collegamento neuronale tra la ghiandola lacrimale e le aree del cervello coinvolte. Vale a dire che, quando piangiamo, le aree limbiche del cervello, che elaborano il sentire della mente, attivano le ghiandole lacrimali che producono appunto le lacrime. Le lacrime sembrano anche avere una composizione diversa quando sono l’espressione di dolore fisico e quando sono l’espressione del linguaggio emozionale. Quando piangiamo a seguito di un’emozione le lacrime contengono alcuni ormoni, come la prolattina e la leu-encefalina, che è un oppioide: potremmo dire che in un certo senso il cervello anestetizza emozioni che altrimenti saprebbe gestire male. E che le lacrime, quindi, curano».

Quindi via libera al pianto a scuola?

«Ma no, però vorrei una scuola non che faccia paura, o generi ansia e stress, ma che faccia “sentire”, dove ci possa essere il diritto finanche di piangere se serve. Augurandoci – mi si passi la battuta- che siano lacrime di soddisfazione condivisione e dialogo».

Deve ammettere che gli studenti, tra Covid e guerra, non vivono uno scenario facile Come aiutarli?

«Credo fermamente che questo non sia un frangente storico in cui possiamo abbandonarci a un pensiero magico del tipo “Speriamo che tutto passi”. Se facessimo così quel timore e quel tremore che molti di noi stanno sperimentando resterebbero lì a imprigionarci. Il timore e il tremore si combattono scegliendo di modificare attivamente quegli aspetti della nostra vita che mostrano delle criticità. Una scelta che implica il confronto con le nostre memorie, anche con quelle dolorose, perché ci facciano da guida nelle decisioni sul nostro futuro».

11 settembre 2022 (modifica il 11 settembre 2022 | 14:35)

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, 2022-09-11 13:01:00, Gli studi sulla warm cognition dimostrano che accompagnare l’entusiasmo e la positività all’apprendimento facilita gli studi. La neuroscienziata: «La scuola italiana invece inculca paura e colpa: ecco come liberarsene», Valentina Santarpia

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