di Orsola Riva
Il neo ministro dell’Istruzione e del Merito Valditara difende la nuova denominazione. Ma negli Stati Uniti, patria della meritocrazia, ci vogliono 5 generazioni perché un povero acceda alla classe media. proprio come in Italia
Molti si stanno chiedendo in questi giorni che cosa comporterà l’aggiunta della parola «merito» nella denominazione del ministero dell’Istruzione oltre al rifacimento della carta intestata . Il neo ministro Giuseppe Valditara ieri ha provato a spiegarlo. «La scuola – ha detto – deve, in primo luogo, saper individuare, valorizzare e fare emergere i talenti e le capacità di ogni persona, indipendentemente dalle sue condizioni di partenza perché ciascun giovane possa avere una opportunità nel proprio futuro». «Il merito – ha aggiunto – è anzitutto un valore costituzionale , chiaramente affermato e declinato dall’articolo 34 della Costituzione». E ha concluso: «E’ su questi presupposti che lavoreremo per una scuola che torni a essere un vero ascensore sociale e che non lasci indietro nessuno».
Il merito, dunque, come leva indispensabile per favorire l’emancipazione sociale e far ripartire l’ascensore bloccato. Ma siamo sicuri che funzioni? In America che, a differenza dell’Italia, è un Paese che ha fatto del merito la propria religione, da tempo ci si sta interrogando su cosa non abbia funzionato se – nonostante ciò – anche da loro l’ascensore sociale si è bloccato e, stando ai dati Ocse, ci vogliono in media 5 generazioni perché una famiglia povera riesca a raggiungere il livello della classe media. Di recente c’è chi – come il professore di Harvard Michael J. Sandel – si è convinto che la favola bella del merito per cui «chiunque può arrivare fin dove i suoi talenti glielo permettono» sia una bugia bella e buona che serve solo a giustificare le sempre maggiori diseguaglianze fra ricchi e poveri. Una narrazione bipartisan, iniziata con Reagan e finita con Obama e Hillary Clinton che, enfatizzando (anche giustamente) l’importanza degli studi fino ai più alti livelli, ha finito per colpevolizzare chi – partendo da condizioni più sfavorevoli – si ferma prima e deve accontentarsi di lavori più umili anche se socialmente essenziali. E per giustificare un darwinismo sociale non molto diverso da quello basato sulla semplice ricchezza. Spingendo i tanti, troppi «looser» direttamente nelle braccia di Trump.
L’esempio della meritocrazia americana dimostra che per garantire a «ciascun giovane un’opportunità nel proprio futuro» non basta valorizzarne i talenti e le capacità «indipendentemente» dalle sue condizioni di partenza. Al contrario: bisogna farlo tenendo conto delle condizioni di partenza, perché per tagliare uno stesso traguardo (scolastico e più tardi lavorativo) chi parte più indietro deve fare più strada. Lo sapevano bene i costituenti quando, in quell’articolo 3 citato «nella lettera e nello spirito» dallo stesso Valditara, assegnarono alla Repubblica «il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Una società è giusta quando riesce a garantire non solo che per un determinato posto sia selezionato il candidato più meritevole, ma anche che chiunque abbia le stesse possibilità di meritare quel posto. E che il figlio di un operaio abbia le stesse possibilità di diventare un ottimo cardiologo del figlio di un medico. O almeno non trovi sulla propria strada ostacoli insormontabili…
26 ottobre 2022 (modifica il 26 ottobre 2022 | 19:07)
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, 2022-10-26 17:08:00, Il neo ministro dell’Istruzione e del Merito Valditara difende la nuova denominazione. Ma negli Stati Uniti, patria della meritocrazia, ci vogliono 5 generazioni perché un povero acceda alla classe media. proprio come in Italia, Orsola Riva