Se Napoli facesse come il Napoli

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editoriale Mezzogiorno, 6 ottobre 2022 – 08:38 di Massimiliano Gallo Un Kvaratskhelia assessore al Bilancio. Un Kim-Min Jae rettore della Federico II. Un Ndombele alla Camera di Commercio. Chissà come sarebbe Napoli governata col metodo De Laurentiis il presidente di quella che oggi possiamo considerare la realtà imprenditoriale più «cool». Una squadra che ci si ostina a considerare come vessillo di chissà quale battaglia identitaria e che invece viene governata con principi di management anglosassoni. La scorsa estate, dopo la vittoria del campionato da parte del Milan e una serie di bilanci negativi, in Aurelio De Laurentiis si è accesa una lampadina. E se copiassimo il modello della società rossonera? Peraltro di proprietà del fondo Elliott non di un piccolo imprenditore meneghino. E ha avviato un processo di sventramento dell’azienda Calcio Napoli. L’addio a tutti quei calciatori che potremmo paragonare ad alti dirigenti di lungo corso. Ciascuno dei quali si era creato nel corso degli anni la propria nicchia di potere e convenienza, oltre a stipendi importanti. Era talmente radicato il loro status di intoccabili che avevano superato indenni un atto di insubordinazione collettiva mai riscontrato nella storia del calcio e che è passato sotto il nome di ammutinamento: la disobbedienza collettiva all’ordine della società di andare in ritiro. In una simile condizione, va da sé che la fame agonistica ne risenta. In questo strano intruglio imprenditoriale che è una società professionistica di calcio, dove bisogna fare i conti con azionisti virtuali ma esigenti e incombenti come i tifosi, era come se De Laurentiis fosse diventato una sorta di ospite a casa sua, un comandante dai poteri molto limitati. Come spesso accade, è il fallimento che ci dà la forza di affrontare un cambiamento. Di fonte alla seconda mancata qualificazione consecutiva in Champions e alla prospettiva di un rischioso declino aziendale, De Laurentiis ha strambato. Ha rotto con la stagnazione, ha sfidato le sabbie mobili e ha affrontato la sfida dell’ignoto. Ha favorito l’uscita dei dirigenti dalla pancia piena, ha alleggerito il bilancio e ha dragato mercati calcistici considerati minori dove ha acquistato manodopera molto qualificata (in alcuni casi eccellente come nel caso del georgiano Kvaratskhelia e del sudcoreano Kim). Un processo schumpeteriano di distruzione creativa, che ha sprigionato nuove energie e favorito l’emersione di leadership che prima erano soffocate dalle situazioni preesistenti di privilegio. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Il Napoli è primo in campionato, primo in Champions dove ha sommerso di gol squadre come Liverpool e Ajax. Il club, che da quasi tutti era considerato destinato all’estinzione dopo l’addio ai senatori, sta vivendo una delle stagioni più esaltanti della propria storia. Che porterà certamente benefici in termini economici, forse anche di vittorie. E anche se a Napoli, incomprensibilmente, De Laurentiis è considerato uno straniero, antropologicamente e a malapena tollerato, la sua lezione dovrebbe diventare un riferimento per chi è stato chiamato alla guida della città. In questi giorni prima il direttore Enzo d’Errico poi Enrico Cardillo hanno avviato una discussione sull’urgenza di cambiare passo da parte dell’amministrazione Manfredi anche perché, vivendo la città dal basso, è francamente impossibile accorgersi di un sia pur minimo cambiamento rispetto a prima. Il metodo dovrebbe essere quello De Laurentiis. Più curriculum, meno cuginanza. Più entusiasmo, meno rassegnazione. Competenze nuove e se necessario da pescare anche fuori città. Perché occorrono energie non impantanate, estranee ai consueti circoletti del sottogoverno, dove i rapporti si trascinano di generazione in generazione. Professionisti in grado di spiazzare con una visione diversa, portatori di esperienze che magari altrove hanno prodotto risultati eccellenti. Esempi virtuosi non mancano: Stéphane Lissner che ha riportato il San Carlo ai vertici europei che gli competono. O Mario Epifani la cui impronta è ben visibile a Palazzo Reale. Il paradosso è che Napoli ha finito col tradire la propria natura di città aperta alle contaminazioni. Si è progressivamente chiusa in un recinto – anche e soprattutto culturale – di corto respiro in cui domina l’autoreferenzialità. A Napoli si parla in continuazione di Napoli, sempre e solo di Napoli, con le stesse parole e con le stesse voci. È praticamente diventata un’ossessione. È ovviamente un copione di convenienza, non ci sfugge. Quella che chiamano napoletanità è anche un business. Ciascuno si è coltivato il proprio orticello, la propria posizione di privilegio. E se la gode mentre il contesto continua inesorabilmente ad affondare. Proprio come i vecchi calciatori del Napoli. La differenza – non da poco – è che a spingere De Laurentiis a spezzare le catene dell’abitudine è stata la paura del declino aziendale e quindi del rischio per il proprio patrimonio. Per un sindaco, ce ne rendiamo conto, questa urgenza non può esistere. A meno che non si viva ogni insufficienza cittadina e la mancanza di prospettiva alla stregua di un dolore fisico. Ma francamente, di questi tempi, forse è chiedere troppo. La newsletter del Corriere del MezzogiornoSe vuoi restare aggiornato sulle notizie della Campania iscriviti gratis alla newsletter del Corriere del Mezzogiorno. Arriva tutti i giorni direttamente nella tua casella di posta alle 12. Basta cliccare qui. 6 ottobre 2022 | 08:38 © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-10-06 06:39:00, editoriale Mezzogiorno, 6 ottobre 2022 – 08:38 di Massimiliano Gallo Un Kvaratskhelia assessore al Bilancio. Un Kim-Min Jae rettore della Federico II. Un Ndombele alla Camera di Commercio. Chissà come sarebbe Napoli governata col metodo De Laurentiis il presidente di quella che oggi possiamo considerare la realtà imprenditoriale più «cool». Una squadra che ci si ostina a considerare come vessillo di chissà quale battaglia identitaria e che invece viene governata con principi di management anglosassoni. La scorsa estate, dopo la vittoria del campionato da parte del Milan e una serie di bilanci negativi, in Aurelio De Laurentiis si è accesa una lampadina. E se copiassimo il modello della società rossonera? Peraltro di proprietà del fondo Elliott non di un piccolo imprenditore meneghino. E ha avviato un processo di sventramento dell’azienda Calcio Napoli. L’addio a tutti quei calciatori che potremmo paragonare ad alti dirigenti di lungo corso. Ciascuno dei quali si era creato nel corso degli anni la propria nicchia di potere e convenienza, oltre a stipendi importanti. Era talmente radicato il loro status di intoccabili che avevano superato indenni un atto di insubordinazione collettiva mai riscontrato nella storia del calcio e che è passato sotto il nome di ammutinamento: la disobbedienza collettiva all’ordine della società di andare in ritiro. In una simile condizione, va da sé che la fame agonistica ne risenta. In questo strano intruglio imprenditoriale che è una società professionistica di calcio, dove bisogna fare i conti con azionisti virtuali ma esigenti e incombenti come i tifosi, era come se De Laurentiis fosse diventato una sorta di ospite a casa sua, un comandante dai poteri molto limitati. Come spesso accade, è il fallimento che ci dà la forza di affrontare un cambiamento. Di fonte alla seconda mancata qualificazione consecutiva in Champions e alla prospettiva di un rischioso declino aziendale, De Laurentiis ha strambato. Ha rotto con la stagnazione, ha sfidato le sabbie mobili e ha affrontato la sfida dell’ignoto. Ha favorito l’uscita dei dirigenti dalla pancia piena, ha alleggerito il bilancio e ha dragato mercati calcistici considerati minori dove ha acquistato manodopera molto qualificata (in alcuni casi eccellente come nel caso del georgiano Kvaratskhelia e del sudcoreano Kim). Un processo schumpeteriano di distruzione creativa, che ha sprigionato nuove energie e favorito l’emersione di leadership che prima erano soffocate dalle situazioni preesistenti di privilegio. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Il Napoli è primo in campionato, primo in Champions dove ha sommerso di gol squadre come Liverpool e Ajax. Il club, che da quasi tutti era considerato destinato all’estinzione dopo l’addio ai senatori, sta vivendo una delle stagioni più esaltanti della propria storia. Che porterà certamente benefici in termini economici, forse anche di vittorie. E anche se a Napoli, incomprensibilmente, De Laurentiis è considerato uno straniero, antropologicamente e a malapena tollerato, la sua lezione dovrebbe diventare un riferimento per chi è stato chiamato alla guida della città. In questi giorni prima il direttore Enzo d’Errico poi Enrico Cardillo hanno avviato una discussione sull’urgenza di cambiare passo da parte dell’amministrazione Manfredi anche perché, vivendo la città dal basso, è francamente impossibile accorgersi di un sia pur minimo cambiamento rispetto a prima. Il metodo dovrebbe essere quello De Laurentiis. Più curriculum, meno cuginanza. Più entusiasmo, meno rassegnazione. Competenze nuove e se necessario da pescare anche fuori città. Perché occorrono energie non impantanate, estranee ai consueti circoletti del sottogoverno, dove i rapporti si trascinano di generazione in generazione. Professionisti in grado di spiazzare con una visione diversa, portatori di esperienze che magari altrove hanno prodotto risultati eccellenti. Esempi virtuosi non mancano: Stéphane Lissner che ha riportato il San Carlo ai vertici europei che gli competono. O Mario Epifani la cui impronta è ben visibile a Palazzo Reale. Il paradosso è che Napoli ha finito col tradire la propria natura di città aperta alle contaminazioni. Si è progressivamente chiusa in un recinto – anche e soprattutto culturale – di corto respiro in cui domina l’autoreferenzialità. A Napoli si parla in continuazione di Napoli, sempre e solo di Napoli, con le stesse parole e con le stesse voci. È praticamente diventata un’ossessione. È ovviamente un copione di convenienza, non ci sfugge. Quella che chiamano napoletanità è anche un business. Ciascuno si è coltivato il proprio orticello, la propria posizione di privilegio. E se la gode mentre il contesto continua inesorabilmente ad affondare. Proprio come i vecchi calciatori del Napoli. La differenza – non da poco – è che a spingere De Laurentiis a spezzare le catene dell’abitudine è stata la paura del declino aziendale e quindi del rischio per il proprio patrimonio. Per un sindaco, ce ne rendiamo conto, questa urgenza non può esistere. A meno che non si viva ogni insufficienza cittadina e la mancanza di prospettiva alla stregua di un dolore fisico. Ma francamente, di questi tempi, forse è chiedere troppo. La newsletter del Corriere del MezzogiornoSe vuoi restare aggiornato sulle notizie della Campania iscriviti gratis alla newsletter del Corriere del Mezzogiorno. Arriva tutti i giorni direttamente nella tua casella di posta alle 12. Basta cliccare qui. 6 ottobre 2022 | 08:38 © RIPRODUZIONE RISERVATA ,

Pietro Guerra

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