Semiconduttori, la crisi è finita? Retroscena di un allarme (che pesa nelle nostre tasche)

Semiconduttori, la crisi è finita? Retroscena di un allarme (che pesa nelle nostre tasche)

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La scarsità di un prodotto strategico ci ha spinto a imitare la Cina, rilanciando il ruolo dello Stato come regista di una «politica industriale».

Ma forse il mercato stava già risolvendo il problema, e l’intervento pubblico servirà solo a ingrassare i profitti delle grandi aziende tecnologiche?

Il tema è quello dei semiconduttori. Uno dei tanti settori dove si sono verificate delle penurie preoccupanti. Legate alla pandemia più che alla guerra in Ucraina, per essere precisi.

Gli effetti dei lockdown sulle varie catene produttive, in Estremo Oriente come nei nostri Paesi, poi la ripresa a razzo di produzione e consumi, fecero esplodere il problema dei micro-chip nel corso del 2021.

Non se ne producevano abbastanza, o non ne arrivavano abbastanza da Taiwan e dalla Corea del Sud.

I semiconduttori sono la memoria e il sistema nervoso di ogni apparecchio elettronico, e ormai siamo circondati dall’elettronica: non soltanto computer telefonini tablet e consolle dei videogame, ma anche un’automobile, un elettrodomestico, sono infarciti di microchip. I ritardi nelle consegne si sono riverberati a cascata, dai produttori di semiconduttori giù giù fino alle fabbriche di altri prodotti.

Questo articolo è un’anticipazione della newsletter Global, di Federico Rampini: per iscriversi basta cliccare qui

A un certo momento, mentre le economie occidentali uscivano dalla fase più acuta della pandemia e dei lockdown, i concessionari d’auto avevano delle liste d’attesa dilatate su molti mesi, perché le case costruttrici non consegnavano vetture in quantità adeguate.

Anche di questo si è nutrita l’inflazione, poi aggravata dallo shock energetico.

Al problema economico si è aggiunto un allarme strategico. L’Europa si è scoperta del tutto dipendente dalle forniture asiatiche. Perfino l’America, dove nacque l’industria dei semiconduttori al punto da dare il nome alla Silicon Valley (valle del silicio non perché vi siano delle miniere, ma perché quel minerale viene usato nelle fabbriche di aziende locali come Intel), da anni ha ceduto la leadership del settore a Taiwan e Corea del Sud. La Intel che un tempo era la regina di questo settore è scivolata dietro la Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (Tsmc) e la Samsung coreana. Che accadrebbe – si sono chiesti alla Casa Bianca, al Congresso, al Pentagono e al Dipartimento di Stato – se la Cina invadesse Taiwan? Possiamo esporci al rischio di rimanere paralizzati, se non arrivano semiconduttori dalle fabbriche dell’Estremo Oriente? Ci stiamo mettendo di nuovo in una situazione simile a quella del gas russo, su cui paghiamo errori strategici, deficit di lungimiranza?

Da questo allarme è nata la riscoperta di una «politica industriale» a base di aiuti di Stato, per rendere nuovamente appetibile alle multinazionali la produzione di semiconduttori negli Stati Uniti (anche l’Europa sta cercando di fare lo stesso).

Il Congresso di Washington è in procinto di approvare definitivamente un pacchetto di aiuti sostanzioso: 52 miliardi di dollari di sussidi, per chi produce semiconduttori sul territorio Usa. Più un credito d’imposta del 25% che vale altri 24 miliardi e quindi porta il totale delle sovvenzioni pubbliche a 76 miliardi. Un’obiezione viene mossa dal Wall Street Journal alla maximanovra di aiuti pubblici riservati all’industria dei semiconduttori.

Il mercato forse stava già risolvendo il problema da solo, facendo funzionare la legge della domanda e dell’offerta. Cioè adeguando la produzione ai consumi. Il problema della scarsità sarebbe già in via di superamento. La Corea del Sud, secondo produttore mondiale, ha già annunciato che le sue scorte di microchip sono cresciute del 50%. Intel e Nvidia, due dei maggiori produttori americani, hanno sospeso le nuove assunzioni in previsione di un rallentamento di attività.

È ovvio che se arriva una recessione, la domanda di prodotti è destinata a scendere.

Il calo dei consumi farebbe la sua parte per riequilibrare la domanda e l’offerta. Ma nel frattempo l’offerta si era già adeguata per sanare la scarsità degli anni precedenti. La taiwanese Tsmc aveva triplicato i suoi investimenti nel triennio 2019-2022. Intel ha quasi raddoppiato i suoi nel biennio della pandemia. Samsung li ha aumentati del 30%. I risultati ci sono. La capacità produttiva già installata è cresciuta del 6,7% nel 2020, dell’8,6% l’anno scorso, e alla fine di quest’anno sarà aumentata dell’8,7%.

Una parte di questa crescita degli impianti e della produzione, per la verità, è proprio la conseguenza delle politiche industriali pubbliche. La Cina da tempo irrora di aiuti di Stato i suoi campioni nazionali, in virtù del piano pluriennale «Made in China 2025».

Negli ultimi anni sono nate ben 15.000 nuove aziende cinesi nel solo settore dei micro-chip. I tre big Tsmc Samsung Intel che stanno costruendo nuove fabbriche negli Stati Uniti, in Texas e Arizona, lo fanno anche perché anticipano l’arrivo di una manna di sussidi pubblici e sgravi fiscali.

Il rischio che denuncia il Wall Street Journal è che l’incubo di una scarsità, e l’alibi della sicurezza nazionale, servano di copertura per costruire un nuovo Corporate Welfare: l’assistenzialismo a beneficio delle grandi imprese. Mentre forse bastava solo aspettare un po’, e le forze del mercato avrebbero riportato in equilibrio la produzione e la domanda di micro-chip, senza succhiare soldi al contribuente.

22 luglio 2022, 18:00 – modifica il 22 luglio 2022 | 18:00

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, 2022-07-23 05:11:00, La penuria di micro-chip nel 2021 ha convinto diversi Paesi a finanziare le aziende che producono semiconduttori. Ma la legge del mercato avrebbe probabilmente risolto , Federico Rampini

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