Serena Dandini: «La casa d’infanzia, i soldi perduti. Mi ha salvata l’ironia»

Serena Dandini: «La casa d’infanzia, i soldi perduti. Mi ha salvata l’ironia»

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di Jennifer Guerra

Dialogo su nostalgia e desiderio fra due donne di generazioni diverse. A partire da una certa idea di giardino. Il confronto col passato si sviluppa in un racconto in cui diverse personalità femminili non vivono di ricordi e hanno avuto le piante come alleate

Serena Dandini apre il suo nuovo libro, Cronache dal paradiso, con una citazione di Emily Dickinson: «Il paradiso dipende da noi». Se l’inferno sono gli altri, il paradiso si annida soprattutto nella dimensione personale del ricordo. È una dimensione familiare, che siamo in grado di controllare. È un giardino segreto di cui solo noi possediamo le chiavi, a cui possiamo accedere quando vogliamo. Ma cosa succede quando la porta si chiude alle nostre spalle? Dandini prova a rispondere in un libro che è a metà tra autobiografia e agiografia, dove il passato che non può ritornare si mescola con le storie di chi ha cercato di ricostruire il giardino. Personalità, soprattutto femminili, che non si sono mai accontentate di crogiolarsi nel ricordo. Con un prezioso strumento: le piante. E per chi si sente negato ed escluso dalla possibilità di tornare nell’Eden, assicura, il pollice nero non esiste.

In Cronache dal paradiso alterni il ricordo di infanzia con storie che in un modo o nell’altro si rifanno al tema dell’Eden. Nelle primissime pagine scrivi: «Non è che il desiderio a guidarci». Mi è piaciuta molto questa frase, perché da femminista la parola “desiderio” per me è una parola chiave, che effettivamente guida ogni mio passo.

«È bello che tu l’abbia colto. Desiderio è una parola talismano. Per le donne è sempre stato qualcosa per cui si deve combattere. Devi combattere anche solo per desiderare di fare ciò che vuoi, di essere la persona che vuoi diventare, di uscire dalla gabbia che la società ti ha messo intorno. Andando indietro nel tempo, penso alla storia di Jeanne Baret che nel Settecento si travestì da uomo e salpò sulla Bougainville per diventare una botanica riconosciuta. Ma forse anche solo per viaggiare. Per la mia generazione viaggiare era un desiderio impellente e proibito. Ma anche ora, penso al desiderio delle ragazze iraniane di essere sé stesse, di mostrarsi. Al di là di qualsiasi ideologia, dovrebbe essere la prima cosa da insegnare alle bambine: potete desiderare».

Le figure che citi, come Jeanne Baret, sono di rottura, desideranti. La prima è Eva, che tutti pensiamo abbia mangiato la mela del peccato, quando è più probabile si trattasse di un fico, Linneo dice un banano. L’immagine di Eva che coglie il fico mi ha fatto venire in mente una metafora di Sylvia Plath ne La campana di vetro: lei vede davanti a sé un albero di fichi e sa che se raccoglierà un frutto tutti gli altri avvizziranno. Un uomo invece può scegliere tutti i fichi che vuole, per lui saranno tutti sempre maturi. La scelta di Eva forse allora era una scelta obbligata. «Però ha voluto farlo, ed è questa la cosa più importante. È stata lei che ha dato inizio a tutto, che ha cambiato le cose. Se guardi l’iconografia, Adamo è disperato e sarebbe rimasto volentieri dove stava. E così oggi noi donne abbiamo ancora la colpa del peccato originale sulle spalle, che torna continuamente: rifiutare il matrimonio, interrompere una gravidanza, decidere qualsiasi cosa per sé».

Lo dice anche Naomi Wolf nel Mito della bellezza, che ho curato con Maura Gancitano. Cita il peccato originale perché il mito si nutre di un meccanismo di colpa e di redenzione. Come donna, devi sempre espiare qualcosa di male che hai fatto, come avere la cellulite o invecchiare, e solo un miracolo ti può salvare.

«Figurati, essere vecchie è un delitto capitale».

Infatti per Wolf il mito della bellezza non serve solo a dividere gli uomini dalle donne, ma anche le donne fra di loro. Le persone di potere sono tutti uomini di una certa età, e quelli giovani desiderano di diventare come loro, a prescindere dall’aspetto. Una donna giovane non guarda a una donna anziana come a un modello, ma come qualcosa da scongiurare. Tu ci parli molto delle figure di riferimento della tua famiglia, soprattutto quelle femminili. Dici che le figlie percepiscono il disagio delle madri, in qualche modo sanno quali rinunce hanno dovuto fare per loro.

«È qualcosa che da bambina ti fa soffrire, anche se non lo capisci a pieno. Forse però è anche quello che ti spinge a non essere come tua madre, a cercare una tua identità. Mi chiedo se sia così anche per le nuove generazioni, con mamme più emancipate, che lavorano e che si vestono come pare a loro». Forse la mia generazione è l’ultima in cui c’è questa dinamica. Capita che delle donne che potrebbero essere mia mamma vengano ai miei incontri pubblici e mi dicano di aver scoperto il femminismo a cinquant’anni, grazie alle figlie. C’è quasi uno scambio di ruoli. «È un arricchirsi reciproco. Anche a me succede che mia figlia mi faccia capire o scoprire delle cose, nonostante il mio percorso di emancipazione. Però dentro di me restano tante cose sospese, che ho raccontato anche nel libro. Certe fragilità che ho nascosto per andare avanti, mostrandomi supereroina».

Secondo me liberazione vuol dire anche accettare le proprie debolezze. Certi aspetti del mio carattere sono in contrasto con l’immagine della femminista forte e sicura di sé. Il femminismo mi ha portata a capire che non sono sbagliata io e che conformarmi a un modello, fosse anche quello della “donna emancipata”, sarebbe un errore.

«Per superare questo dualismo tra forza e debolezza, mi sono molto aiutata con l’ironia e l’autoironia. È uno strumento fondamentale per accettare la fragilità, perché ti puoi guardare allo specchio e accettare innescando il meccanismo della risata. La tv delle ragazze, un programma che ha la tua età (ride), è nato proprio da questo desiderio: sei donna e ti diverti, sei femminista e ti diverti. Senza nessun moralismo».

Ultimamente noto una sorta di “moralismo di ritorno”, anche nel femminismo: devi essere perfetta, prenderti sempre sul serio. Se provi a essere ironica, fuori dalle righe, spesso vieni fraintesa.

«E invece è importante. Lo diceva anche Virginia Woolf in un saggio sull’ironia: le donne sono serie ma si prendono meno sul serio, mentre gli uomini devono essere sempre tutti d’un pezzo. Virginia ha sempre ragione, sempre. Nel libro la lente ironica non manca, anche quando racconto cose molto personali. È più forte di me, è una questione di sopravvivenza».

Cronache dal Paradiso è in effetti pieno di malinconia e nostalgia, ma ogni tanto arrivano questi momenti ironici ad alleviare la tensione.

«La nostalgia l’ho dovuta un po’ riscoprire. Ti devi arrendere: la nostalgia è il motore di tutti i film, i libri, i quadri. Ti devi arrendere, sì, ma non ti puoi crogiolare. Il libro si apre con la scoperta dell’annuncio della vendita della mia casa d’infanzia. Se mio padre non avesse perso tutto, probabilmente non sarei stata la stessa persona, non avrei avuto la spinta per differenziarmi da questa famiglia così ingombrante. Adesso la guardo con tenerezza, mentre in passato mi veniva più da pensare: ma che famiglia era? (ride). Per me ricominciare da zero è stato stupendo».

Essere diversi dagli altri è un punto a favore, aiuta ad avere uno sguardo diverso, a uscire dall’uniformità culturale. Qualche anno fa non avere avuto certi privilegi mi faceva arrabbiare, ma poi mi sono resa conto che è una risorsa.

«È un occhio in più, che ti permette di guardare le cose con disincanto. Non ho mai più avuto paura di non avere soldi, mi interessava solo fare quello che mi piaceva. Quello che desideravo».

24 novembre 2022 (modifica il 24 novembre 2022 | 09:20)

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, 2022-11-24 08:22:00, Dialogo su nostalgia e desiderio fra due donne di generazioni diverse. A partire da una certa idea di giardino. Il confronto col passato si sviluppa in un racconto in cui diverse personalità femminili non vivono di ricordi e hanno avuto le piante come alleate , Jennifer Guerra

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