Serena Mollicone, il delitto  e le prove mancate: perché  i  Mottola sono stati assolti L’omicidio, i volti: la fotostoria

Serena Mollicone, il delitto e le prove mancate: perché  i Mottola sono stati assolti L’omicidio, i volti: la fotostoria

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di Fulvio Fiano

Dna, porta, movente: all’indomani della sentenza di assoluzione del maresciallo dei carabinieri e dei suoi familiari, ecco i punti deboli dell’accusa sui quali hanno insistito gli avvocati difensori

Dopo 21 anni, il verdetto sull’omicidio di Serena Mollicone è arrivato: nessun colpevole. In attesa delle motivazioni della Corte d’Assise di Cassino che saranno depositate tra 90 giorni, sono i punti cardine della difesa a fornire spunti sul ragionamento seguito dai giudici nel decidere l’assoluzione dei tre imputati per l’omicidio, il maresciallo Franco Mottola, suo figlio Marco e la moglie Anna Maria «per non aver commesso il fatto», quella del vicemaresciallo Vincenzo Quatrale (concorso esterno) e dell’appuntato Francesco Suprano (favoreggiamento) «perché il fatto non sussiste». E così, il giorno dopo, è possibile capire meglio perché la presunta colpevolezza non sarebbe dimostrata «oltre ogni ragionevole dubbio».

Il dna mancante

La prova che più di ogni altra manca è quella che consente di legare i presunti assassini alla vittima. Sul corpo di Serena, sul nastro adesivo che la imbavagliava, sulla porta contro la quale, secondo l’accusa, sarebbe stato sbattuto il suo capo non ci sono tracce biologiche degli imputati. Come spiegato dal generale Luciano Garofano, ex comandante dei carabinieri del Ris e consulente delle parti civili, la mancanza di impronte potrebbe essere la prova che siano state cancellate. Ma è anche vero che sul nastro un’impronta digitale c’è, non è dei Mottola e non è mai stata attribuita a nessun altro. Secondo il criminologo Carmelo Lavorino, coordinatore del pool difensivo, sarebbe quella del vero assassino.

I frammenti di legno

La riapertura delle indagini e il rinvio a giudizio degli imputati è stato possibile grazie a una consulenza scientifica sofisticatissima affidata al Ris dei carabinieri e alla dottoressa Cristina Cattaneo, direttrice del laboratorio di anatomopatologia forense Labanof di Milano. La frattura cranica di Serena è dovuta, dice lo studio, all’impatto con una superfice liscia e la lesione nella porta è perfettamente compatibile con la forma della testa della ragazza nel punto di urto. Gli esperimenti condotti hanno rilevato la presenza di 25 frammenti sub-millimetri di legno nei capelli di Serena, compatibili per tipo di materiale con quelli della porta della caserma. La contro perizia della difesa ha fatto emergere dei punti che confuterebbero questa certezza, perché è vero che la ripetizione dell’esperimento dell’impatto del cranio di Serena ricostruito in 3D contro una porta dello stesso materiale di quella sequestrata produce sempre una quantità simile di frammenti, ma la loro distribuzione andrebbe rilevata su una superficie più ampia di quella della tempia della 18enne. Senza contare che analoghi frammenti sarebbero presenti sulla parte esterna del nastro che ne avvolgeva il capo, dunque, in ipotesi, provenienti da una fonte diversa. Quanto alla frattura cranica, sarebbe dovuta ad altro oggetto contundente, mentre il buco nella porta sarebbe dovuto a un pugno dei Mottola durante una lite padre-figlio.

Il movente incerto

La spiegazione del perché Serena sarebbe stata aggredita da Marco Mottola in caserma non è stata mai accertata con nettezza. «Solo lei potrebbe dircelo», ha ammesso la procura nella sua requisitoria, escludendo comunque le ragioni passionali («fra i due non c’era nessun legame») e facendola discendere in modo logico dalla lite che vittima e presunto assassino avrebbero avuto poco prima in auto, durante il passaggio che il figlio del maresciallo avrebbe dato a Serena di ritorno da Sora la mattina dell’1 giugno. L’ipotesi più accreditata è quella sempre sostenuta dal padre di Serena, Guglielmo, secondo il quale la figlia voleva denunciare Marco per la sua attività di spaccio, tanto da avere anche col maresciallo Mottola una discussione in piazza nei giorni precedenti, ma perché — hanno obiettato le difese — Serena avrebbe dovuto denunciare Marco proprio ai carabinieri di Arce rientrando in caserma? Per la procura Serena sarebbe finita involontariamente in trappola entrando in caserma per prendere i libri di scuola che aveva lasciato nel veicolo. I libri non sono stati mai trovati ma sulle motivazioni della ragazza non si possono avere conferme.

Depistaggi o sciatteria?

Le tante e concordanti azioni sospette con cui Mottola padre avrebbe sviato le indagini, nascosto prove e alterato testimonianze non sono formalmente parte del capo di imputazione ma ne sono il necessario corredo per dimostrare che il maresciallo, esercitando nel proprio interesse la sua funzione, abbia coperto sé stesso e il figlio rispetto a quanto commesso. Il principale elemento di cui si è dibattuto in aula è l’ordine di servizio di quell’1 giugno in base al quale il comandante, così come Suprano e Quatrale, non sarebbero stati presenti in caserma quella mattina. La procura ha misurato le distanze che la pattuglia avrebbe percorso in relazione ai servizi svolti e sono emerse molte incongruenze. Non di falso si è trattato secondo gli imputati ma di sciatteria. La stessa che avrebbe caratterizzato il resto delle indagini di Mottola. A partire dall’ «equivoco» sulla segnalazione dell’auto da cercare, non la Autobianchi Y10 bianca del figlio vista dai testimoni con Serena a bordo fuori a un bar ma una Lancia Y rossa. Anche in questo caso per i giudici si tratta di interpretazioni da compiere.

I testimoni reticenti

Quattro secondo i pm hanno mentito, tanto da rinviare gli atti della loro deposizione in aula alla valutazione dei giudici per indagarli. Tra loro l’amico che ha fornito un alibi a Marco Mottola, il vice sindaco di Arce dell’epoca, l’amante del brigadiere Tuzi. Molti altri sono apparsi reticenti, ondivaghi, smemorati. Con ognuno di loro gli imputati avrebbero avuto secondo l’accusa un legame non solo di conoscenza ma quasi di ricatto, senza che sia stato però possibile dimostrarlo.

Il caso Tuzi

«Mio padre ha avuto il coraggio di rompere il muro di omertà, altri continuano a tacere», ripeteva anche ieri Maria Tuzi, figlia del brigadiere morto suicida dopo aver rivelato, a sette anni di distanza, l’ingresso di Serena in caserma. La sua morte aveva inizialmente destato il sospetto di un omicidio per un proiettile mancante dalla sua pistola, una posizione innaturale del cadavere in auto e per le bugie dette da Anna Maria Torriero, con cui aveva una relazione, la quale ha sostenuto l’esistenza di una telefonata disperata del carabiniere dopo che lei lo aveva lasciato. Di questa telefonata non c’è traccia ma le motivazioni intime di Tuzi restano di fatto imperscrutabili. La sua testimonianza, oltre a non poter essere verificata in aula data la sua morte, è incompleta – e quindi attaccabile – perché il suicidio è avvenuto prima di completare il suo interrogatorio e perché lui stesso si era in parte rimangiato quanto detto, prima di confermarlo di nuovo. Di fatto però le verifiche dal suo punto di osservazione in caserma e i riscontri sulla borsetta mai trovata di Serena sembrano accreditare la sua sincerità.

I misteri del telefono

Scomparso e poi riapparso a distanza di giorni in casa di suo padre, il cellulare della 18enne non ha impronte, il registro delle chiamate è stato cancellato e nella rubrica è comparso un «666» numero del diavolo. Chi lo ha rimesso nel cassetto della sua stanza voleva associare forse Serena ad ambienti pericolosi o provare a incastrare Guglielmo, prelevato durante la veglia funebre e tenuto in caserma 3 ore per il verbale di ritrovamento. «È stato Mottola a metterlo lì durante una finta perquisizione», ha sempre sostenuto il papà di Serena, ma anche su questo non ci sono riscontri inoppugnabili. Così come il maresciallo ha portato alla corte elementi per dire che non dipese da lui la scelta di trattenere Guglielmo.

Il ruolo dei coimputati

«Tra me e Mottola non c’era amicizia e come carabiniere non ne avevo stima», ha detto a voce ferma in aula il vice maresciallo Quatrale. Secondo l’accusa anche lui era presente in caserma e dal suo ufficio non avrebbe potuto non sentire il trambusto del delitto al piano di sopra. Fatto salvo il discorso già fatto per l’ordine di servizio che si presume falso, per quale motivo, è l’interrogativo sollevato dalle difese, Quatrale avrebbe dovuto obbedire al suo superiore su un omicidio avvenuto in caserma, coprendolo, omettendo di denunciarlo e mentendo sempre in questi anni senza mai averne un ritorno economico o di carriera? Quanto al suicidio di Tuzi, contro Quatrale c’è una intercettazione in cui lo invita a valutare bene le conseguenze della sua denuncia. Lo stesso Quatrale si era offerto di indagare su di lui per valutarne l’attendibilità e nell’interpretazione del tono di quelle parole potrebbe nascondersi un altro punto a favore della difesa. Discorso in parte simile per Suprano, che si sarebbe prestato a nascondere la porta del delitto sostituendola con una del suo appartamento sfitto Come poteva sapere che era una prova d nascondere? E non sarebbe stato più facile distruggerla?

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16 luglio 2022 (modifica il 16 luglio 2022 | 13:51)

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, 2022-07-16 12:10:00, Dna, porta, movente: all’indomani della sentenza di assoluzione del maresciallo dei carabinieri e dei suoi familiari, ecco i punti deboli dell’accusa sui quali hanno insistito gli avvocati difensori, Fulvio Fiano

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