Il serial killer Dahmer, un incubo mai finito che dilania l’America

Il serial killer Dahmer, un incubo mai finito che dilania l’America

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di Matteo Persivale

La serie tv sull’autore di 17 omicidi sta battendo ogni record e riaprendo un capitolo doloroso. Dove s’incrociano violenza, razzismo e la complessità della natura umana, che Dostoevskij aveva compreso. Torniamo sul luogo dei delitti per affrontare la realtà dietro la fiction

Dopo nove ore e mezza di visione, nove ore e mezza di descensus Averno in dieci puntate nel quale veniamo accompagnati attraverso tutte le fasi della vita di Jeffery Dahmer, l’infanzia e la gioventù e gli omicidi seriali, i coltellacci, le bistecche di carne umana sfrigolanti sulla piastra della cucina male illuminata, il bidone della spazzatura nel tinello pieno di acido per sciogliere i corpi delle vittime, le ossessioni religiose, il cannibalismo (e c’è anche una parentesi su un altro serial killer, John Wayne Gacy, vestito da clown mentre macella le sue vittime nella vasca da bagno), dopo tutto questo, il serial di Netflix Dahmer – Monster: The Jeffrey Dahmer Story ci porta all’epilogo inevitabile, scontato per chi si ricorda quel caso di più di trent’anni fa: nella palestra del carcere, senza nessuna sorveglianza, un altro detenuto uccide Dahmer usando un bilanciere per i pesi a mo’ di spranga, “nel nome del padre e del figlio e dello spirito santo, amen”.

Cosa dobbiamo provare noi spettatori, a parte l’orrore oltre l’orrore? Sollievo? Pensare che giustizia sia fatta?

Le radici del male

La risposta è necessaria per comprendere il successo enorme del serial, oltre 700 milioni di ore di visualizzazioni in meno di un mese, secondo programma in lingua inglese più visto (e quarto in qualsiasi lingua) da quando esiste Netflix (e come da ferrea legge contabile di Hollywood, adesso verranno inevitabilmente realizzati altri telefilm sui serial killer per “valorizzare” questa tendenza). La risposta è sì, che il mondo ha parlato attraverso i click e lo streaming, e che era evidentemente necessario rivedere le azioni di Dahmer, l’acqua bollente iniettata del cranio delle vittime non per ucciderle ma per renderle “zombie” ai suoi comandi, nell’inevitabile polemica innescata dai familiari delle diciassette vittime (due delle quali quattrordicenni).

Si sommano le discussioni americane e non solo sull’intento (indiscutibile) razzista di Dahmer che andava a colpire in prevalenza neri e ispanici, sul libro scritto da suo padre (c’è la scena in cui vediamo Lionel Dahmer che si lamenta delle scarse vendite, «forse la gente pensava che volessi approfittarmi della vicenda»), i progressisti sui giornali e soprattutto sui social media che criticano l’operazione Netflix perché Dahmer era gay e cercava le sue vittime in bar e locali e saune gay che vediamo sempre sinistri, male illuminati, sporchi.

Le vittime

Certo, l’unico personaggio non ripugnante è la vicina afroamericana che continuava a chiamare la polizia per le urla provenienti dall’appartamento di Dahmer, e l’insostenibile odore di carne putrefatta che lui attribuiva al barbecue, vicina che fino alla fine – quando viene decisa la demolizione del complesso di appartamenti – lotta inutilmente per far costruire al suo posto un parco in memoria delle diciassette vittime. E certo, ne esce a pezzi la polizia, che viene chiamata ripetutamente invano, e che riporta a casa dell’assassino una delle vittime che era riuscita a scappare – la vicenda era apparsa ai loro occhi una semplice lite tra amanti.


E tra le vittime di Dahmer c’è anche la città di Milwaukee, la città della Gemütlichkeit. Una volta, tanti anni fa, quando era ancora la città degli immigrati dalla Germania e dalla Scandinavia, a Milwaukee non c’era bisogno di tradurre in inglese Gemütlichkeit perché tutti sapevano cosa voleva dire – bonomia, buon vicinato, stare insieme in amicizia magari davanti a una birra (è la città delle birrerie Miller e Schlitz) dopo una giornata di lavoro. Milwaukee seria e puntuale e produttiva ma non seriosa né noiosa, sorella tranquilla della metropoli, Chicago, a nemmeno un’ora e mezza di macchina più a Sud, sempre sulla riva del grande lago Michigan. La città del lavoro e della dedizione alla famiglia, dove si va a letto presto e ci si sveglia presto, l’unica città d’America dove aveva senso ambientare Happy Days, che non avrebbe avuto senso in un paesino ma neppure in una grande città multietnica, e così ecco la saga della famiglia Cunningham nella città del Midwest così bianca e protestante ed etnicamente omogenea che, ancora negli Anni 50, l’italoamericano Fonzie Fonzarelli veniva guardato come un animale esotico, una specie di aardvark in giubbetto di pelle sulla sua vecchia Triumph (insulto motociclistico di Hollywood a Milwaukee, peraltro, che è la patria della Harley Davidson).

Lo sfondo esalta l’orrore

Per tutti questi motivi, nel 1991, quando il mondo ha scoperto sui giornali e in tv “il mostro di Milwaukee”, Jeffrey Dahmer, l’orrore è stato ancora più forte. Il serial killer, il cannibale, veniva dalla città quieta e bonaria, cattolica e serena. Nel finale della serie, vediamo ardere in un forno crematorio la scatola con il cervello del serial killer che gli scienziati avevano conservato per studiarlo e il padre, dopo aver fatto causa, aveva fatto distruggere come da ultime volontà. È un’immagine, non molto sottile ma la sottigliezza non è la dote né l’intento del telefilm, che racchiude il senso di tutto: perché Dahmer ha ucciso? La risposta, che è la cosa più inquietante di tutta la vicenda, è che il mostro non era un mostro, era un uomo che faceva quello che gli piaceva, lucidamente. Gli piacevano necrofilia e cannibalismo: «ero smarrito», dice al cappellano del carcere poco prima di morire, spiegando grottescamente che lui almeno si era pentito al contrario del collega serial killer John Wayne Gacy.

Memorie dal sottosuolo

«Sono un uomo malato… Sono un uomo cattivo. Un uomo sgradevole», è l’incipit, famosissimo, delle Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij. Nel libro che rappresenta la prova generale di Dostoevskij prima dei suoi grandi romanzi, vediamo come ha scritto Armando Torno nella sua introduzione all’edizione Bompiani delle Memorie da una casa di morti e Memorie dal sottosuolo, che qui si sondano le profondità del «sottosuolo dell’anima che non riusciamo a governare né tanto meno a Scrutare… siamo tutti compromessi perché le nostre scelte vengono decise in quel sottosuolo… Per questo, ripeterà in diverse occasioni con voce stentorea Dostoevskij, Dio è necessario». Dio diventa anche una necessità di Dahmer, che dei personaggi dostoevskijani non ha ovviamente la profondità, rimpiazzata dalla brutale dedizione alla sua missione di morte (quando finalmente perfino l’incapace polizia di Milwaukee non riesce a non arrestarlo in casa sua, sembra quasi sollevato: chiederà la pena di morte che come abbiamo visto verrà però eseguita da un altro detenuto, in nome di Dio – il Dio necessario delle Memorie dostoevskijane). Ma, alla fine, Dahmer stravince nello streaming – la versione digitale e postpandemica del botteghino cinematografico di una volta – perché è diventato, in questi anni, una terribile celebrity, assorbito dal meccanismo spietato della società mediatizzata che per primo Andy Warhol aveva definito così bene.

Dietro al successo in tv

Dahmer è un brand, un marchio – il marchio dell’orrore assoluto, del Caos. L’ha capito ancora una volta meglio di tutti Patricia Cornwell, scrittrice ed esperta di criminologia, saggista di successo su quella che è la sua ossessione, l’identità di Jack lo squartatore. Scrive Cornwell nel suo recentissimo Autopsia (Mondadori): «Allora non stiamo parlando di un ex fidanzato o di un regolamento di conti dello spionaggio. Stiamo parlando di un Ted Bundy, di un Night Stalker, di un Jeffrey Dahmer. Marino (Pete Marino è un agente dell’investigativo di Richmond, sempre a fianco della protagonista Kay Scarpetta, ndr) snocciola sempre lo stesso elenco di serial killer. Almeno quegli psicopatici erano interessanti, direbbe, diversamente da quegli stronzi che piazzano bombe casalinghe, prendono d’assalto il Campidoglio e sparano nei supermercati, si affretta a rammentare a chiunque sia disposto ad ascoltarlo».

Il Washington Post, in un lungo articolo del 18 ottobre che premetteva «questa serie non avrebbe mai dovuto essere realizzata» tanto per chiarire la sua posizione, ha scritto: «Quello che noi spettatori non riusciamo a capire è perché una persona voglia mangiare altre persone. Ed è ciò che lo show, nonostante affermi di incentrare la sua attenzione sulle vittime, cerca di fare per la maggior parte del tempo: si interrogano, con grandi dettagli visivi, su come Jeffrey Dahmer sia diventato Jeffrey Dahmer. È successo perché vide sua madre sdraiata sul letto, come un cadavere, dopo un’overdose di pillole? Quando sezionava le carcasse di animali trovati a bordo della strada, investiti dalle auto, insieme con suo padre in nome della sperimentazione scientifica? In una scena Dahmer va a pescare e, mentre impara a sventrare il pesce, gli stringe le viscere tra le dita e le guarda grondare sangue». Basta questo? Davvero? No, ovviamente.

Effetti collatorali

Un altro problema, ovvio, e di questo Netflix non ha responsabilità diretta, è che i possessori di smartphone, tablet e computer (91% della popolazione mondiale) passano in media 2 ore e 27 minuti al giorno connessi ai social media. E tutto, ma proprio tutto, diventa materia prima per i contenuti virali. E per i “meme”. È diventata un meme anche la furia, l’indignazione di Rita Isbell, sorella di una delle vittime di Dahmer, durante la sua deposizione al processo, quando quasi aggredì fisicamente l’assassino. Isbell ha scritto su Insider un commento molto duro contro il serial, che ha riprodotto con straordinaria verisimiglianza il suo discorso – l’attrice è molto somigliante, costumi e set e luci sono perfetti. Questa riproduzione, questa ri-creazione di quel momento, rivaluta o, amplificandola ovunque senza controllo, svaluta la realtà del suo dolore, che più di trent’anni dopo è ancora così vivo, a differenza di suo fratello, ucciso e mangiato da Dahmer?

© RIPRODUZIONE RISERVATA

1 novembre 2022 (modifica il 1 novembre 2022 | 09:15)

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, 2022-11-02 07:32:00, La serie tv sull’autore di 17 omicidi sta battendo ogni record e riaprendo un capitolo doloroso. Dove s’incrociano violenza, razzismo e la complessità della natura umana, che Dostoevskij aveva compreso. Torniamo sul luogo dei delitti per affrontare la realtà dietro la fiction, Matteo Persivale

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