Silenzio elettorale, che senso ha nell’era social? I politici non lo rispettano più

Silenzio elettorale, che senso ha nell’era social? I politici non lo rispettano più

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di Roberto Gressi Norma nata nel 1956 per offrire all’elettore un tempo di tranquillità e riflessione, viene violata da molti leader di partito, anche e soprattutto attraverso i canali social E’ una legge del 4 aprile 1956, la numero 212. Si chiama Silenzio elettorale. Nel giorno che precede il voto e a urne aperte vieta comizi, campagna elettorale in luoghi pubblici e ogni forma di propaganda entro il raggio di 200 metri dall’ingresso dei seggi. Mute anche radio e tv. Lo scopo è quello di offrire all’elettore un tempo di tranquillità e riflessione, per scegliere con coscienza, dopo aver ascoltato per settimane le opinioni degli uni e degli altri. Violare questa norma, di elementare buon senso, è diventato ormai da anni una sorta di sport nazionale. E quello che all’inizio pareva uno scandalo si affoga ormai in una cacofonia, con l’effetto principale di aumentare il chiasso e la confusione. Già in questa domenica mattina si sono distinti, tra i trasgressori, Silvio Berlusconi e Matteo Salvini. E siamo solo all’inizio. Sarebbe interessante se gli analisti sapessero dirci quali sono gli effetti di queste guasconate. Quanti voti si guadagnano o si perdono, se producono consenso o se servono soltanto a soddisfare la vanità dei protagonisti o a timbrare una sorta di certificato di esistenza in vita. Sarebbe prezioso capire se questi interventi aiutano ad avvicinare le persone alle sezioni elettorali o se invece confermano la voglia di farsi da parte e andare al mare. C’ è un obiezione ormai classica al silenzio elettorale. Roba vecchia, da confinare in un cassetto polveroso. Che senso ha, si argomenta, ostinarsi a mantenere un sistema ormai obsoleto nell’era dei social, dove nulla tace mai, dove tutto è in rete in tempo reale? E non si vede che proprio le trasgressioni crescenti dicono che quella legge segna il passo e non ha più ragione di esistere?. Ma allora perché non abolirla del tutto, consentendo di inseguire le persone fin sulla soglia della cabina elettorale? Per argomentare, convincere, premere. Per dire «mi raccomando, vota bene». Dove l’esortazione, a seconda dei luoghi e dei personaggi può prendere la forma dell’invito, della promessa, del ricatto o della minaccia. Ognuno vede, senza scomodare necessariamente le libertà democratiche, che anche solo il buon gusto sconsiglia di intraprendere questa china. Più probabilmente, ad animare la rottura del Silenzio elettorale, non è la possibilità di strappare in zona Cesarini fino all’ultimo consenso. Ma solo la voglia di animare la rissa, di non riconoscersi e legittimarsi tra avversari, di rifiutare l’adagio secondo il quale, giusto o sbagliato, questo è il mio Paese. Giorgio Gaber, per pungolare il conformismo degli appuntamenti elettorali, descriveva in una sua canzone la giornata de voto. «Una mattina molto bella/anche la strada è più pulita/senza schiamazzi e senza suoni/E poi la gente per la strada/li vedo tutti più educati/sembrano anche un po’ più buoni…». Strappava, da artista, un velo di ipocrisia. Ma che probabilmente anche lui avrebbe preferito all’arroganza. 12 giugno 2022 (modifica il 12 giugno 2022 | 13:33) © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-06-12 11:33:00, Norma nata nel 1956 per offrire all’elettore un tempo di tranquillità e riflessione, viene violata da molti leader di partito, anche e soprattutto attraverso i canali social, Roberto Gressi

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