di Silvia AvalloneLa scrittrice sulla guerra in Ucraina: «Tutte le donne del pianeta dimostrano con le loro parole e con le loro azioni che non deve prevalere per forza la logica della morte»
Le prime testimonianze che cerco nei resoconti di guerra riguardano le donne e i bambini. Perché sono stati, in qualsiasi epoca e latitudine, esclusi dalla Storia, sue vittime e, credo, suo possibile riscatto. Se nei libri di storia le donne hanno trovato pochissimo spazio, quando nelle nostre case sono arrivate le immagini in diretta dal Kosovo, dal Ruanda, dall’Afghanistan, almeno abbiamo potuto vederle in volto. Nei loro occhi ho sempre riconosciuto una domanda sbalordita, un «perché» afono con un punto di domanda inciso nelle pupille. Come se la guerra fosse un linguaggio incomprensibile, che non c’entrava nulla con la realtà di tutti i giorni, i neonati al seno, le amiche, i desideri. Provavo la loro stessa incomprensione.
Kiev dista 1.985 chilometri da casa mia. Ma secondo mia madre — che ricorda il disastro di Chernobyl e il terrore di darmi del cibo contaminato — dista molto meno. Le guerre lontane, in sottofondo, sono diventate una guerra vicinissima dove le donne vestono i miei stessi panni, fanno gli stessi sacrifici di mia madre o hanno le mie stesse ambizioni; mi ci immedesimo mentre corrono con i figli in braccio, cercano di salire su un treno gremito
alla disperata, di calmare un bambino, di sistemargli il giubbotto perché fa freddo: sono gli stessi gesti che compirei io. Che potrei compiere. La guerra è in Europa, questa volta, a un passo dall’Unione sorta proprio dalle macerie di un conflitto catastrofico, giurando: «Mai più».
Dal 24 febbraio il pensiero è fisso in Ucraina. Perché lì è qui, e vivere vuol dire specchiarsi nella vita degli altri. Mentre accompagno mia figlia a scuola, rivedo i volti attoniti dei bambini in un asilo allestito in uno scantinato. Cosa gli avranno detto le maestre? Quali parole avranno scelto per spiegare i bombardamenti che li hanno costretti a giocare sottoterra? Mentre rifaccio i letti, rivedo le coperte delle 15.000 persone accampate nella metropolitana di Kiev, sospese in profondità, in attesa che cessino le bombe. Quanti bagni ci sono nella metropolitana di Kiev? Come fanno a dormire, lavarsi, cambiare i neonati? Risparmiano acqua per sterilizzare i biberon, scopro cercando sul web informazioni, oltre che sui blocchi geopolitici di potere, sulla quotidianità delle persone sotto assedio. Internet è un getto continuo di testimonianze e ci chiama tutti a conoscere, affinché nessuno possa dire: «Io non lo sapevo».
Cosa faresti al suo posto? Me lo sono chiesta leggendo le parole di Inna Sovsun, deputata del Parlamento ucraino, la mia età: quando la guerra è iniziata, ha messo in salvo il figlio di 9 anni sul confine, lo ha lasciato con il padre ed è tornata a Kiev per partecipare alla resistenza. Come lo saluti, tuo figlio di 9 anni? Con una carezza, un bacio? Come ti volti sapendo che forse non lo rivedrai? Dove la trovi, la forza? «Se si deve fare, si fa». Mi torna in mente la risposta di una madre più esperta di me. In Ucraina le donne fuggono come fuggirei io: con il piumino pesante, i documenti, lo smartphone. Salutano i mariti che partono per il fronte come io saluterei Giovanni. Ascoltano i figli implorare: «Papà non andare via». Oppure restano, imbracciano kalashnikov che non hanno mai usato, preparano molotov di cui ignoravano il funzionamento, si appostano e sparano come forse (non oso pensarci) farei se mi avessero portato via tutto e raso al suolo persino la città.
Mentre prendevo parte a una manifestazione di pace in un’affollata piazza italiana e mia figlia mostrava un foglio con scritto «No alla guerra», in Russia donne identiche a me scendevano in piazza con i loro figli, portavano fiori e disegni di fronte all’Ambasciata ucraina, solo che, anziché tornare a casa come noi, venivano arrestate. Bambini trattenuti per aver espresso il loro pensiero di pace, adolescenti mandati al fronte senza che nemmeno fossero consapevoli: capisco come una madre possa voler combattere per la libertà, persino al prezzo di non veder crescere il proprio figlio.
La guerra in Ucraina non ci ha colti del tutto impreparati sul fronte delle calamità. Veniamo da anni in cui abbiamo provato il senso di precarietà infinita del nostro presente. Virus, cambiamenti climatici devastanti, disastri nucleari possono bussare alla nostra porta da un momento all’altro. L’impensabile accade. Il male esiste e insiste, anche se non siamo noi a toccarlo con mano raccogliendo da terra il corpo di un bambino dilaniato da una bomba, arenato dopo un naufragio, ucciso dalla Storia: quel corpo ci chiama in causa perché apparteneva al più innocente tra gli innocenti e nei suoi sogni c’era il futuro di tutti noi.
Il punto, per me, è che il male non è una strada inevitabile. Accanto alla Storia delle aggressioni e del potere, c’è un’altra storia, che le donne conoscono bene perché hanno sempre dovuto prendersene cura: quella delle persone, con la s minuscola. Cos’è la guerra? È l’esatto contrario di quelle donne che mettono in salvo i fragili nei bunker, i libri da una biblioteca che rischia di essere bombardata, che intrattengono i bambini in asili di fortuna. La guerra è il contrario di quei bambini che disegnano, di chi accorre per solidarietà a portare aiuto. Perché nel crollo di ogni pietà e significato occorre ricordare che esiste un’alternativa.
Le donne ucraine partoriscono nella pancia della terra, come Kateryna Suharokova nel bunker dell’ospedale di Mariupol. I bambini nascono e si ostineranno a farlo in qualunque condizione perché «la vita continua», come scrive Wislawa Szymborska, e «Dove non è rimasta pietra su pietra, / c’è un carretto di gelati». Ma come farla continuare, la vita, dipende da noi: è una nostra scelta. Le donne raramente hanno potuto scegliere. Nei manuali di storia del liceo chi ha deciso, comandato, depredato e manovrato armi è stato, in schiacciante maggioranza, uomo. Maschili i nomi rimasti, i monumenti dedicati. La memoria delle donne violentate, uccise, spartite, e dei loro figli si è spesso persa nello spazio bianco tra le righe. La Storia l’hanno fatta sempre sgobbando nelle retrovie, nelle fabbriche, nelle case, nei lazzaretti, nelle infermerie da campo, senza medaglie. È stato chiesto a noi di occuparci dei corpi e delle storie degli altri, di riparare i danni, di crescere i bambini, di accompagnare gli anziani, di curare i feriti, di portare il lutto, di stare sul crinale tra la vita e la morte e suturare in silenzio. Però il mondo ha bisogno di noi, come noi abbiamo bisogno del mondo. E di non subirla, la Storia, di non guardarla da lontano. Ma di cambiarla a partire dalla memoria del dolore, dalla memoria della solidarietà, dalla logica del mettere al mondo anziché del togliere.
Questo 8 marzo 2022 voglio dedicarlo alle donne ucraine che lottano, resistono, fuggono, muoiono, partoriscono, aiutano; alle donne russe che, come Yelena Osipova a ottant’anni, scendono in piazza con il loro cartello per chiedere la pace; a tutte le donne del pianeta che dimostrano, con le parole e le azioni, che non deve per forza vigere la legge del potere, dei soldi, della conquista, del sopruso: la logica della morte. C’è anche quella della nascita, della generazione. È trasversale a qualsiasi genere, nazionalità, sesso, religione, etnia. Coincide con il desiderio di realizzare se stessi insieme agli altri, di rispecchiare la propria identità nell’alterità. Consiste nell’aiutare, allungare una mano, un pacco di vestiti o medicinali; nell’ascoltare; nell’accogliere perché la mia storia è la tua. E, su queste basi, costruire un nuovo linguaggio, una nuova economia, una nuova convivenza con gli altri e con il pianeta.
Il male, se non si elimina, si sorveglia. Con cosa? Con la cultura. Con la continua manutenzione e ricerca della libertà, della pace, della parità, dei diritti umani: un orizzonte che vada oltre se stessi. Il male si supera con l’esempio concreto delle persone: le tante, tantissime persone comuni, donne, bambini, anziani, fragili, poveri, emarginati, che non hanno uno straccio di potere, ma hanno la forza di salvare. «La vita è un paradiso» scrive Fëdor Dostoevskij
ne I fratelli Karamazov, «e noi tutti siamo in paradiso, ma non vogliamo capirlo; e invece, se volessimo capirlo, domani stesso il mondo intero diventerebbe un paradiso».
7 marzo 2022 (modifica il 7 marzo 2022 | 09:01)
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, 2022-03-07 08:38:00, La scrittrice sulla guerra in Ucraina: «Tutte le donne del pianeta dimostrano con le loro parole e con le loro azioni che non deve prevalere per forza la logica della morte», Photo Credit: , Silvia Avallone
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