di Francesca Pini
Lo sradicamento forzato del popolo Sámi nell’opera di Pauliina Feodoroff e Máret Á nne Sara, le discriminazioni contro i rom nel film di Loukia Alavanou, l’Algeria post coloniale di Zineb Sedira. Le voci e le storie
Questo articolo fa parte dello Speciale Arte pubblicato su 7 nel numero in edicola venerdì 15 aprile. Lo anticipiamo — insieme all’ intervista all’artista anglo-indiano Anish Kapoor (leggi qui) — per i lettori di Corriere.it
L’occasione principe per emergere definitivamente non poteva che essere questa. Tra le artiste che rappresentano i padiglioni ne abbiamo scelte alcune la cui azione s’indirizza ai temi incisivi del nostro tempo: diritti civili e attivismo, militanza politica, autodeterminazione (anche sessuale), sostenibilità, resilienza. Dal 2020, il movimento Black Lives Matter (BLM) e di Decolonize this Place hanno fatto da volano a un nuovo approccio nell’arte, che si fa sentire anche in questa Biennale (dal 23/04 al 27/11). Il Padiglione Usa aveva già scelto nel 2015 la grande Joan Jonas, ma ora punta tutto sull’afroamericana Simone Leigh (Chicago, 1967). Scultrice e performer che, tre mesi fa, è stata chiamata a New Orleans a rimpiazzare, con un intervento temporaneo durante la Triennale Prospect.5, la statua rimossa del generale Robert E. Lee (che considerava la schiavitù un’istituzione da preservare, lui stesso ebbe una quindicina di schiavi al suo servizio) con un’opera pubblica. Leigh ha scelto di realizzare una divinità dell’acqua, Mami Wata. E anche a Venezia si farà paladina delle teorie femministe delle black women, delle tradizioni e dei valori culturali di cui sono portratrici.
Minoranze e metaverso
Nel 1979 giovani Sámi (indigeni di quella regione nota come Lapponia) protestarono a Oslo contro il governo che li ignorava sfruttando le loro terre, piantando le tende (i lavvus) davanti al parlamento e facendo lo sciopero della fame. Oggi alla Biennale, l’evento è così storico per il Padiglione nordico che la regina Sonja di Norvegia sarà presente per onorare la partecipazione degli artisti Sámi (tra cui due donne, Pauliina Feodoroff e Máret Ánne Sara con Anders Sunna), ma qui non sono certo il folclore o le tradizioni ad essere celebrate, qui è tutta una denuncia degli errori del passato, dello sradicamento forzato, delle leggi punitive. Feodoroff (artista, regista e politica) le cui radici affondano nella parte russa del Sápmi, è guardiana della terra, e promuove programmi di riforestazione e di rivitalizzazione dei fiumi. Máret Ánne Sara, artista e scrittrice, figlia di un allevatore di renne, conosce bene la leggi che hanno discriminato la sua gente.
I Rom senza sepoltura
Anche i rom entrano di diritto nel contesto artistico di questa esposizione internazionale d’arte. Loukia Alavanou ( Padiglione della Grecia) è qui con un suo film in realtà virtuale Oedipus In Search Of Colonus, girato in una comunità rom alle porte di Atene, e tra le tante discriminazioni di cui sono vittime c’è quella di non avere diritto alla sepoltura. «Vivono vicino alla principale discarica della città, in un ghetto molto duro, con diverse sotto-comunità. Quelli di etnia albanese non sono registrati. C’è voluto un anno per essere accettata e mandare in porto il mio progetto. Il modo come uso la macchina VR (che riprende a 360 gradi) per me è simile a quello che facevano i fotografi all’inizio del ‘900, quando ritraevano le persone mettendole in posa. Per me lavorare così è stata anche un’allegoria del coro antico greco. Ho girato in un luogo incontrollabile, tante cose spontanee sono accadute, nella prima scena volano degli uccelli, non volevo iniziare con una presenza umana».
Anche Edipo era un esiliato
«La macchina da ripresa è stata vista dai rom come un essere alieno, in fondo anche Edipo lo era. Nel film, queste persone sono sia loro stesse che dei personaggi. L’uomo anziano che interpreta Edipo, lui era davvero il re dei rom a Tebe. Edipo era un esiliato, quindi ci sono molti elementi documentari che coincidono con la condizione di questi rom. Antigone, che è il bastone e l’aiutante di Edipo, nella mia versione parla in modo coraggioso davanti alla camera, volevo che esternasse tutta la sua soggettività. Poi ho lavorato sulle visioni utopiche dell’architetto Takis Zenetos che, negli anni ‘60, immaginava che le persone vivessero dentro capsule in una città sospesa, comunicando attraverso delle connessioni elettriche. La mia interpretazione è che lui già ipotizzava una sorta di Metaverso». Artista del Padiglione polacco è Malgorzata Mirga-Tas, di etnia rom e attivista, per questo la sua installazione vuole mettere in primo piano l’apporto culturale e artistico dei rom in Europa, rovesciando gli stereotipi. Lei lo fa in modo sorprendente con un’installazione post-rinascimentale di patchwork. Riproducendo fantasiosamente la sequenza dei meravigliosi affreschi quattrocenteschi (voluti da Borso d’Este) di Palazzo Schifanoia a Ferrara, per raccontare l’epopea rom, iniettandovi elementi mitologici, magici, valorizzando il ruolo delle donne. Il suo è un lavoro pittorico tessile, realizzato anche con frammenti di abiti ottenuti dalle persone che infondono vissuto e anima alla sua opera.
Memoria e decolonizzazione
La militanza umanistica di Zineb Sedira (di origine algerina) si rivolge alla memoria, specie a quella del giogo del colonialismo seguito poi dalla decolonizzazione, lungo le coordinate culturali delle co-produzioni cinematografiche degli anni 60 e 70 tra Algeria, Francia (che l’ha scelta per il suo padiglione) e Italia. Il suo progetto Les rêves n’ont pas de titre (i sogni non hanno titoli) è di carattere filmico, installativo e immersivo. «Amo togliere le cose dall’oblio, dalla negligenza, anche a causa della politica. Aggiornandole e trasmettendo quello che trovo negli archivi, specie quelli algerini, che non sono facilmente accessibili, per questo sono felice di condividere in questa mia opera ciò che ho trovato». Nell’Archivio audiovisivo del movimento operaio democratico di Roma (AAMOD) ha pescato un film dimenticato, Le mani libere (o Tronco di fico) di Ennio Lorenzini del 1964 (restaurato dalla Cineteca di Bologna per l’occasione). «Di quel lavoro mi hanno colpito la bellezza delle immagini, ce ne sono poche filmate a colori dell’Algeria post indipendenza, che usciva dalla colonizzazione francese, affrontando il periodo molto duro della carestia. C’era però una grande gioia di vivere e il riappropriarsi del proprio paesaggio, del proprio territorio senza più alcun controllo dei documenti».
Terzomondisti, antirazzisti, contro i pregiudizi
«Volevo celebrare questo momento di solidarietà tra questi tre Paesi: la Francia e l’Algeria sono la mia identità e la mia nazionalità, e poi l’Italia per via della Biennale e della Mostra del cinema che nel 1966 fece un atto politico molto forte dando il Leone d’oro al film La battaglia di Algeri di Pontecorvo. Fu uno scandalo, un incidente politico tra Italia e Francia per aver osato dare il premio a questo film, rimasto censurato in Francia fino al 2004. Veramente negli anni ‘60 c’era la coscienza di fare dei film terzomondisti, antirazzisti, contro i pregiudizi. L’Algeria in quel momento aveva un ruolo molto importante, investiva denaro per la produzione anche di film stranieri, voleva associarsi ai grandi protagonisti del cinema internazionale, come Costa Gavras. Uno dei miei interventi artistici è il remake: ho preso, tra gli altri, uno spezzone della Battaglia di Algeri. Poi ci sono molti riferimenti personali: sono nata nel 1960, figlia di immigrati in Francia che hanno subito il colonialismo, ho vissuto il razzismo. Ecco, in questo progetto c’è la mia storia personale in quella più grande del cinema ».
Emancipazione e cura dell’ambiente
Un uomo, Collin Sekajugo, e una donna, Acaye Kerunen, rappresentano l’ Uganda tra i padiglioni new entry. «Lavoro con comunità di donne», dice l’artista e performer Kerunen, principessa di sangue reale. «le loro creazioni vengono realizzate mentre curano i bambini, e così non vengono viste come una forma d’arte, mentre lo sono, e nell’arte contemporanea c’è anche molta artigianalità. Uso questi loro manufatti come fossero un pennello. Molte donne vivono nelle zone umide, dove appunto crescono palme e l’albero della rafia, per questa ragione diventano custodi di un ambiente quasi segreto, dove si va a raccogliere piante officinali e altre per la tintura. Ma la politica e gli uomini di affari mettono in pericolo questo habitat. Con la mia arte cerco di riconnettere queste donne a delle pratiche vicine alla natura, oggi in Uganda l’opzione di usare il filato cinese per i lavori artigianali è molto meno costosa e questa rafia è molto corrosiva per le mani. Per molte tessere fa parte di un’igiene mentale, questo lavoro diventa un ristoro, ed è anche un modo per sottrarsi alla violenza domestica e a relazioni tossiche. Molte sono anche anziane ma quando le vedo lavorare hanno una bellezza radiosa, ringiovaniscono, ma questi non sono argomenti che appassionano i media. Appena guadagnano, la relazione con il marito cambia, vengono rispettate. Scrivo musica e poesia. Farò anche una performance raccontando i sentimenti e le sofferenze delle donne nel canto».
Riciclo delle materie e fede nell’umanità
Una grande installazione che ci avviluppi, e delle sculture monumentali fatte in legno povero, recuperato da altre Biennali grazie all’associazione ReBiennale. Per il Padiglione della Svizzera, Latifa Echakhch (insieme al compositore Alexandre Babel e al curatore Francesco Stocchi, ex dj) ha lavorato su emozioni e musicalità, come se si entrasse nella cassa armonica di uno strumento. «M’interessa far riflettere su ciò che hanno realizzato grandi liutai come Stradivari, a me piace lavorare con materiali a buon mercato, è un gesto quasi politico. Non ho usato il prezioso abete di risonanza, sarebbe stato un peccato utilizzarlo nel modo che volevo io. Siamo in un’epoca dove non ho voglia di utilizzare il bronzo, il marmo. Ho fatto dei modelli in argilla e poi ci sono stati gli ingegneri che hanno fatto scan in 3D stabilizzando le strutture, un assemblaggio simile a quello dei carri del Carnevale. Il mio progetto l’ho pensato prima dei grandi incendi, prima di Black Lives Matter, sentivo che c’era bisogno di una dichiarazione forte nei confronti dello stato del mondo. Quando la guerra in Ucraina è scoppiata avevo già allestito il padiglione e mi sono posta il problema se il mio lavoro era valido e mi sono data la risposta: era proprio quello che ci voleva per resistere in questo momento storico, Guernica ha sempre parlato di tutte le guerre. Bisogna credere nell’umanità, nell’arte. Sono soddisfatta che la Svizzera si sia allineata alla condanna dell’invasione russa ».
Anni 70, crisi energetica e gender
Sicuramente sarà il padiglione più ironico e giocoso di tutta la Biennale quello dell’ Austria, ed è come se nell’aria aleggiasse lo spirito acuto di Karl Kraus, già dal titolo: Invitation of the soft machine and her angry body parts, un’invitante, morbidosa macchina scenografica con opere e pezzi scelti di design (Gio Ponti, Verner Panton…) nella quale entrare e riscoprire gli anni 70 con tutte le loro istanze: proteste, moda, controcultura, body language. A costruire questo caleidoscopio coloratissimo sono Jakob Lena Knebl (che in realtà si chiama Tina) e la sua partner artistica Ashley Hans Scheirl, transgender. «Come allora, ancora adesso siamo in piena crisi energetica, non immaginavamo di essere così d’attualità, ma del resto volevamo indagare le dinamiche degli anni ‘70 che ancora influenzano la realtà odierna», dicono all’unìsono.
«La fluidità fa parte dei nostri princìpi»
«Lavoriamo singolarmente o in coppia, sul concetto di una disciplina estetica che superi i generi. Lungo tutto il perimetro del Padiglione corrono molti tubi, un richiamo a quelli del Centre Pompidou di Parigi, un museo costruito per tutti, fu un vero e proprio atto politico. La fluidità fa parte dei nostri princìpi: bisogna essere come acqua diceva l’attore Bruce Lee, maestro di Kung fu. In queste nostre sculture prendiamo parti del corpo per assemblarle diversamente. Il mix fra cultura alta e bassa che proponiamo è eccitante, c’è fotorealismo, Surrealismo, il sogno dello spazio. Per noi è anche importante il feticismo, l’alchimia (nelle nostre opere trasformiamo la cacca in oro), ci piace anche il gioco che, spesso, nei bambini è anche un processo genitale». A Venezia ci sarà anche un’altra presenza che va molto oltre il gender ed è l’umanoide robotica artista AI-DA che dipinge e interagisce con chi le sta davanti, la si troverà al ristorante-baretto In Paradiso lì ai Giardini. Ma lei, per il momento, non è ancora in concorso.
15 aprile 2022 (modifica il 18 aprile 2022 | 00:23)
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, 2022-04-17 22:24:00, Lo sradicamento forzato del popolo Sámi nell’opera di Pauliina Feodoroff e Máret Á nne Sara, le discriminazioni contro i rom nel film di Loukia Alavanou, l’Algeria post coloniale di Zineb Sedira. Le voci e le storie, Francesca Pini