Stare attenti a scuola, ti spieghiamo come funziona il meccanismo dellattenzione e come influiscono negativamente i social media. INTERVISTA al professor Giovanni Mento

Stare attenti a scuola, ti spieghiamo come funziona il meccanismo dellattenzione e come influiscono negativamente i social media. INTERVISTA al professor Giovanni Mento

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Attenzione e capacità cognitive, è possibile allenarle? Ne abbiamo parlato con il Professor Giovanni Mento psicologo e docente presso l’Università di Padova, coordinatore del gruppo di ricerca Neurodev.

Professor Mento, l’attenzione è un costrutto multicomponenziale che si sviluppa durante la fase di crescita e coinvolge varie aree cerebrali. Ci spiega brevemente come si sviluppa l’attenzione?

Come lei stesso ha anticipato, l’attenzione è un costrutto multicomponenziale, vuol dire che è una famiglia di meccanismi cognitivi, anche molto diversi tra di loro, che però hanno in comune il fatto permetterci di metterci in relazione con il mondo esterno, cioè di riuscire a dare un senso a organizzare le informazioni sensoriali, che sono moltissime, per cercare di trarre delle informazioni sensate e quindi anche di apprendere, dal punto di vista non solo formale, quindi l’apprendimento scolastico, ma anche dell’apprendimento delle relazioni sociali, l’apprendimento delle abilità motorie e così via. Diciamo che quando parliamo di attenzione parliamo di un costrutto che a differenza di altri meccanismo cognitivi è considerato un meccanismo di tipo dominio generale, vuol dire che siamo capaci di usare attenzione indipendentemente dal tipo di informazione con cui abbiamo a che fare, quindi possiamo utilizzare l’attenzione per informazioni di tipo visivo, uditivo, sociale, motorio, quindi è qualcosa che caratterizza tutta la nostra attività mentale, a differenza di altri processi che invece sono un po’ più specifici, che entrano in gioco quando ad esempio dobbiamo avere a che fare, nel caso dell’apprendimento, con la lettoscrittura, piuttosto che con altre abilità grafomotorie, quindi parliamo in quel caso di abilità specifiche.

Questa differenza fa sì che la nostra capacità di usare attenzione è qualcosa che ci caratterizza sin dall’inizio della nostra vita, fondamentalmente, e che però va in contro a dei cambiamenti molto importanti. Quello che noi sappiamo da decenni di ricerca è che a differenza di come si pensava una volta, ovvero che la mente del bambino fosse una tabula rasa, che tutto fosse legato all’apprendimento, alla capacità esperienziale, che è indubbiamente vero, però ora sappiamo molto di più. Sappiamo che grazie in parte a quello che abbiamo ereditato dalla filogenesi, dall’evoluzione insomma, la nostra attenzione è già guidata, molto precocemente, da alcuni aspetti dell’ambiente che sono molto importanti per la nostra sopravvivenza, uno per tutti sono gli stimoli sociali, per esempio i volti. Noi sappiamo che sin dalla nascita, a tal proposito ci sono studi più che trentennali, i bambini hanno la capacità di orientare il proprio sguardo e mantenere la propria attenzione in maniera più prolungata per tutto quello che sembra una faccia, che va a ricordare gli elementi di un volto, pensate che questa cosa ce la ritroviamo anche oggi con quello che noi chiamiamo pareidolia, che è questo fenomeno per cui vediamo facce dappertutto, come ad esempio la famosa faccia sulla superficie della luna, proprio perché la nostra mente, il nostro cervello, è immediatamente catturato da tutto quello che può avere la capacità di comunicare un volto, perché un volto ha la capacità di comunicare intenzioni e così via.

Quindi la nostra attenzione ha questa capacità molto precoce di essere guidata dall’ambiente, quello che poi succede nel corso dello sviluppo è che subentra la capacità non soltanto di farci controllare dall’ambiente, quindi dalla salienza delle informazioni, ma di essere noi a controllare l’ambiente, quindi subentra quello che noi chiamiamo attenzione cosiddetta endogena che a differenza dell’attenzione esogena ha la caratteristica di rispondere a quelle che sono delle nostre esigenze, delle nostre istanze personali, cioè siamo noi a dirigere l’attenzione nei confronti di quello che riteniamo utile o importante.

Ovviamente questo ha bisogno di molto tempo per svilupparsi e ha bisogno anche di meccanismi dal punto di vista celebrale molto complessi che riguardano l’interazione non le singole di regioni del cervello, come abbiamo pensato per molti anni, ma l’interazione, tra di loro, di circuiti molto complicati, quindi di molta area del nostro cervello. Apro una piccola parentesi per sconfessare quel mito che dice che noi usiamo solo il dieci per cento del nostro cervello, non solo non è vero, sarebbe impossibile, invece utilizziamo tutto il nostro cervello da quando nasciamo fino a quando diventiamo anziani. Un aspetto importante, sempre legato allo sviluppo dell’attenzione, ci porta a distinguere, come abbiamo detto all’inizio, quelli che sono i diversi meccanismi dell’attenzione, quindi la capacità di focalizzarci sui volti, o su un aspetto parziale della realtà, ha a che fare con l’attenzione selettiva, o focalizzata; un altro aspetto molto importante è la capacità di mantenere questa attenzione nel tempo, di riuscire a dedicare molte risorse energetiche cognitive su qualcosa che riteniamo utile, importante, poi su cosa è utile o importante potremmo aprire un capitolo enorme, perché quello che può essere importante per me per un bambino non lo è, c’è molta differenza individuale.

Però di sicuro se noi non riusciamo questa capacità di tenere le risorse energetiche mentali nel tempo, facciamo molta fatica ad apprendere. Calandoci nel mondo della scuola, proviamo a pensare ad un bambino della prima o seconda classe primaria che deve apprendere la lettoscrittura, non solo avrà bisogno delle abilità di transcodifica, quindi capire che da un segno corrisponde un suono e come si legano più suoni tra di loro, coinvolgendo anche le competenze legate al suono, fonetiche e fonologiche, ma ci sarà bisogno anche di uscire a sostenere questi apprendimenti con molta attenzione.

Quale tipo di attenzione è maggiormente coinvolta nei processi di apprendimento?

Direi che tutte le forme di attenzione sono fortemente coinvolte, per esempio la capacità di utilizzare l’attenzione selettiva è molto importante nel momento in cui noi dobbiamo leggere un testo e di conseguenza estrarre informazioni da apprendere. Se noi non riusciamo a focalizzare selettivamente l’attenzione sul testo inibendo le distrazioni che vengono dal resto del modo, ecco che poi non riusciamo a tirare fuori un ragno dal buco fondamentalmente. Però sono importanti anche altre forme di attenzione più complesse, legate alle nostre capacità di controllo cognitivo, o di funzionamento esecutivo, che hanno a che fare ad esempio con la capacità di usare la nostra attenzione per controllare il nostro comportamento in maniera finalizzata al raggiungimento di un obiettivo.

Faccio un esempio pratico, proviamo a pensare a una classe prima della scuola primaria, che per definizione è molto movimentata, come naturale che sia perché parliamo di bambini che sono passati da un contesto di gioco destrutturato ad un contesto strutturato in cui bisogna stare seduti al banco, ascoltare la maestra e così via, quello che entra in gioco in maniera forte nella capacità di apprendimento è la capacità di autocontrollo e di inibizione, di autoregolarsi, questa è una forma che ha a che fare con l’attenzione, è una funzione cognitiva, l’inibizione, che è molto legata all’attenzione.

Se non riesco ad inibire le informazioni distraenti che vengono dall’ambiente, come può essere il compagno che sta parlando, oppure quello che vedo fuori dalla finestra, o anche pensieri personali, ecco che se non riesco a gestire queste informazioni poi non riesco ad utilizzare le mie energie neurali in maniera selettiva, la mia attenzione, per stare sul qui e ora, per apprendere dall’insegnante quello che sta dicendo. Un’altra forma ancora più importante è la capacità di legare tra di loro delle informazioni diverse che possiamo apprendere da più fonti e costruire concetti anche via via più complessi, anche in assenza di materiale visivo, un’attività che possiamo svolgere attraverso quella che chiamiamo memoria di lavoro. Si tratta di un aspetto molto importante in particolare per l’apprendimento nel dominio matematico, ma non solo.

Questa è una delle attività dove è maggiormente richiesta la memoria di lavoro, anch’essa legata all’attenzione, e sono tutte funzioni complesse che non possono essere indipendenti. Ciò vuol dire che se lo guardiamo a ritroso sottolinea l’importanza di lavorare in maniera precocemente, già in età prescolare, sulla capacità di rafforzare questa sorta di anticorpi mentali che è la capacità di utilizzare attenzione per apprendere quello che stiamo facendo, quindi di cercare di essere noi a controllare l’ambiente e non farci controllare dall’ambiente.

Con l’avvento dei social media e una società iperstimolata, sembra sempre più difficile mantenere l’attenzione su compiti prolungati. Ci spiega come funziona questo meccanismo e come possiamo allenarlo?

Il problema è che fondamentalmente quella che è l’ergonomia cognitiva, cioè il modo in cui gli strumenti tecnologici, e mi riferisco in modo particolare al cellulare, interagiscono con le nostre funzioni mentali è abbastanza distruttivo nei confronti di quello che è il nostro naturale funzionamento mentale. Mi spiego meglio, se guardiamo come funzionano le nostre App o come funziona normalmente l’organizzazione delle App in un cellulare, un giovane adolescente, e purtroppo assistiamo a questo fenomeno in bambini sempre più piccoli che corrisponde al fatto che l’età di utilizzo del cellulare si sta abbassando, quello che noi vediamo è che questi ragazzi riescono a tenere attive molte applicazioni contemporaneamente e questo significa che la loro attenzione è continuamente guidata dall’esterno, da notifiche o da altri tipi di input che arrivano direttamente dalle App, proprio perché queste App sono ingegnerizzate in modo tale da catturare continuamente l’attenzione della persona.

È un po’ lo stesso funzionamento che c’è nei social media, se vogliamo, dove arrivano continuamente contenuti che hanno l’obiettivo di catturare dall’esterno la nostra attenzione. Tutto questo, fondamentalmente, va a discapito della nostra capacità di mantenere l’attenzione sul compito fisso, che può essere più rilevante per i nostri obiettivi, in maniera prolungata. C’è un libro molto interessante, che ho letto e consiglio a tutti, di Lisa Iotti, pubblicato un paio di anni fa, che si intitola “8 secondi: viaggio nell’era della distrazione” che denuncia in maniera cristallina questo cambio generazionale enorme nell’uso dei social media e la cosa emblematica nel titolo del libro è che gli 8 secondi si riferisce al nostro spam attentivo, in pratica l’ipotesi è che se nei decenni scorsi eravamo in grado di leggere un testo, anche un libro, per divertimento e quindi non come compito scolastico, dedicando attenzione per diversi minuti prima di interromperci per fase altro, perché la nostra attenzione ha bisogno ogni tanto di dover essere spezzata e recuperata, ora questo sta diventando sempre più difficile.

Pensare alle nuove generazioni impegnate in compiti che richiedono un’attenzione che sia impiegata in maniera prolungata che vada oltre pochi minuti è veramente difficile, proprio perché siamo abituati ad avere continuamente incentivi esterni. Tutto questo, tra l’atro, si basa su meccanismi neurobiologici molto precisi. Il nostro cervello, tutte le volte che riceve un richiamo dall’esterno, che sia la notifica del cellulare o il like messo su Facebook piuttosto che la notifica di Instagram, ecco che tutte le volte che accade questo il nostro cervello fondamentalmente va incontro ad un meccanismo di autogratificazione, significa che c’è un rilascio dopaminergico, che è il neurotrasmettitore legato ai meccanismi di gratificazione che fondamentalmente è indistinguibili dai meccanismi di gratificazione che abbiamo dal cibo piuttosto che da altre attività ludiche.

L’aspetto interessante è che viviamo nel 2023 in una società molto evoluta dal punto di vista tecnologico, ma da un certo punto di vista abbiamo ancora un cervello primitivo, significa che i meccanismi di funzionamento neurobiologico sono gli stessi che ci caratterizzano da sempre, al di là di quale sia l’evoluzione della società. Quindi il nostro cervello non riesce a distinguere se la scarica di dopamina che ci arriva perché abbiamo visto il like di Facebook a lungo andare può fare un danno cognitivo rispetto alla scarica di dopamina che ci può arrivare dal proprio partner, piuttosto che da altre attività. Sto un po’ riducendo, ma il succo del discorso è che i mezzi tecnologici funzionano facendo leva su dei meccanismi molto arcaici del funzionamento del nostro cervello per cercare di legarci e di incentivare l’utilizzo continuo, in un reward continuo.

Il legame con l’attenzione è che quest’ultima, soprattutto per l’attenzione sostenuta, ovvero mantenere la concentrazione nel tempo, diventa molto sgretolata da questo tipo di comportamento dettato dai mezzi tecnologici moderni e lo vediamo sempre di più nel fatto che difficilmente bambini, anche molto piccoli, riescono a svolgere delle attività prolungate nel tempo, come può essere ad esempio il disegno, soprattutto quelli molto esposti a strumenti tecnologici, è un fenomeno purtroppo in crescita. Faccio solo una precisazione, in realtà quello che stiamo vedendo è qualcosa che si può ritrovare non solo legato al mondo della tecnologia, ma è proprio un cambiamento generazionale importante. Se ad esempio prendiamo i grandi pezzi di musica rock degli anni 70/80, essi erano caratterizzati da avere una struttura musicale particolarmente lunga e anche con introduzioni lunghe, pensiamo ad esempio a dei pezzi dei Pink Floyd ma anche della musica leggera italiana. Tutto questo non esiste più, perché oggi i pezzi di musica che ascoltiamo hanno un impatto immediato, dall’inizio del brano all’inizio del ritornello che ci cattura passa poco tempo, questo perché le nuove generazioni hanno bisogno di ricevere immediatamente un messaggio che attivi la dopamina. C’è una grande difficoltà a costruire l’ascolto, l’utilizzo dell’attenzione nel tempo. In altri termini, un ragazzo di 12/13 anni probabilmente al giorno d’oggi non scoprirebbe i Pink Floyd perché non avrebbe la pazienza e la capacità di ascoltarli.

Professor Mento, ma l’attenzione sostenuta può essere allenata?

Certamente, la nostra mente, usando una metafora che non amo moltissimo ma serve a rendere l’idea, può essere considerata come un muscolo, nel senso che possiamo sicuramente allenare le nostre funzioni cognitive. Ad esempio una delle cose che sappiamo è che più manteniamo attiva la nostra mente nell’età adulta e più riduciamo il rischio di un decadimento cognitivo precoce o patologico. Questo vuol dire che c’è un margine di cambiamento molto importante già in età adulta.

Perché non pensare che questo non possa accadere già in età evolutiva dove per definizione i meccanismi di neuroplasticità sono massimi. Questo significa che dobbiamo anche renderci conto che l’attenzione va allenata indipendentemente dal suo utilizzo pratico. Mi spiego, non dobbiamo preoccuparci di allenare l’attenzione quando siamo alla primaria e vediamo che questa può servire per l’apprendimento o per altri tipi di attività pratiche, dobbiamo cominciare a preoccuparci molto prima di riuscire ad allenare le nostre capacità, non solo di attenzione ma in generale di controllo cognitivo. Cerchiamo di capire innanzitutto cosa non dobbiamo fare, come lasciare che l’attenzione dei bambini sia costantemente guidata da device esterni, sia guidata da istanze esterne, che siano messi in condizione di dirigere la loro attenzione, la loro concentrazione, sulla base di stimoli provenienti dall’esterno, mi riferisco ai contenuti di tablet, come ad esempio i cartoni animati, soprattutto se caratterizzati da grande velocità e da un grande ricambio di scene che è quello che noi tecnicamente chiamiamo passing.

Qualche anno fa è uscito un articolo che ha fatto molto scalpore, il quale ha dimostrato che il cartone animato “Sponge Bob”, rispetto ad altri cartoni animati più educativi, aveva degli effetti cognitivi negativi nei bambini di 4 anni, perché caratterizzato da questa velocità delle scene molto alta, che alla fine era lo stesso risultato della notifica frequente usata sui social media, che sposta continuamente l’attenzione da un oggetto all’altro senza darci il tempo di elaborare in profondità i contenuti. Quindi è importante non dare device prima di una certa età, l’OMS sconsiglia fortemente l’esposizione agli schermi prima dei 24 mesi. In età prescolare il tipo di contenuto dovrebbe essere supervisionato e partecipato, perché queste tecnologie possono essere molto utili però se gestiti con la partecipazione dei genitori in maniera guidata. L’aspetto più impostante è capire che la fase di sviluppo dell’attenzione è quella che va dai due ai sei anni, che è l’età su cui possiamo lavorare di più perché c’è la massima neuroplasticità. Basti pensare che a 2/3 anni di età abbiamo molti più neuroni, più connessioni sinaptiche, di quelli che poi avremo per il resto della nostra vita, è l’età in cui la potenza cerebrale è massima, è quella in cui dobbiamo lavorare di più per ottenere il massimo e non pensare ai bambini degli ultimi anni della scuola primaria che magari hanno difficoltà, e non mi riferisco ai disturbi dell’apprendimento che sono un’altra categoria, ma anche fragilità attentive. Forse è tardi preoccuparsi quando siamo già di fronte ad una situazione che necessità della nostra attenzione. Detto questo diciamo cos’altro si può fare, come ad esempio allenare lo slow thinking, ovvero cercare di proporre delle attività che allenino la nostra capacità di attenzione sostenuta, attività come per esempio i giochi di società, gli scacchi, il disegno, i giochi di ruolo, ma anche lo sport è fondamentale.

Quindi cercar di lavorare moltissimo su tutte quelle attività che sono caratterizzate da una singola attività prolungata nel tempo, questo perché il nostro cervello non è predisposto per attività multitasking. Mi rendo conto di dire qualcosa che va contro il pensiero comune, ma possiamo affermare che il multitasking è dannoso per il cervello. Noi siamo abituati a pensare che più cose facciamo contemporaneamente e più siamo bravi, di cui lo stereotipo classico è quello dell’uomo d’affari che riesce a mantenere una vita lavorativa e contemporaneamente fa altre mille cose, ma purtroppo il nostro cervello non si è evoluto per funzionare in questo modo, il nostro cervello ha bisogno di fare una cosa alla volta per farla bene, o di passare velocemente da un’attività a un’altra, ma fare più attività contemporaneamente non solo non è fisicamente possibile ma va a discapito di quella che è la capacità di apprendimento e la capacità di far bene. Questo vuol dire che se noi esponiamo i nostri bambini molto precocemente ad attività che richiedono molta attenzione divisa, quindi fare più cose contemporaneamente, oppure spostare molto velocemente l’attenzione da una parte all’altra dello spazio visivo o uditivo e così via, stiamo remando contro, in qualche modo andiamo a introdurre una possibile traiettoria di sviluppo divergente dell’attenzione. Riassumendo, il mio consiglio è quello di limitare al massimo le attività che vadano a disgregare l’utilizzo dell’attenzione in maniera continuativa e focalizzata in favore di attività che invece, soprattutto grazie anche all’interazione con la famiglia e con i pari, possono lavorare molto sulla capacità di mantenere l’attenzione nel tempo.

Un’ultima domanda. Giocando lavoriamo particolarmente sull’attenzione visuo-spaziale, i nostri ragazzi sono particolarmente concentrati, se non addirittura immersi, in attività piacevoli che li stimolano. Quanto è importante questo aspetto sul miglioramento delle funzioni cognitive e relazionali di soggetti in via di sviluppo?

È fondamentale, nel senso che il nostro sviluppo cognitivo non è qualcosa da intendersi come in maniera indipendente dal contesto sociale, emotivo e relazionale in cui viviamo, anzi è qualcosa che è fortemente interconnesso. Nelle università abbiamo un po’ questo piccolo difetto di dover suddividere le cose spesso in maniera anche un po’ eccessiva, quindi parliamo di sviluppo cognitivo come se fosse indipendente dallo sviluppo sociale, emotivo o relazionale. In realtà un bambino in via di sviluppo è un organismo in fortissima interazione con il modo dei pari, della famiglia, della scuola e con tanti i micro e macro livelli all’interno dei quali interagisce. È la sua capacità di funzionamento cognitivo, legato all’attenzione ma anche allo sviluppo linguistico, ma anche delle attività di coordinazione motoria e così via, è qualcosa che è fortemente legato al contesto all’interno del quale interagisce. Quindi il gioco è fondamentale, è un’attività che non è da intendersi solo in maniera ludico-ricreativa, ma il gioco, soprattutto se parliamo di gioco strutturato, può promuovere determinate funzioni mentali.

Ci sono già moltissimi programmi, sia a livello nazionale che internazionale, che si portano avanti già dalla scuola prescolare sotto forma di giochi, come ad esempio i giochi di ruolo o di interazione. In realtà questi giochi nascondono la possibilità di allenare delle funzioni mentali che sono fondamentali per il dopo, ovvero per l’apprendimento formale, come ad esempio le capacità di controllo inibitorio, quindi rispettare i ruoli del gioco, come ad esempio fare una determinata azione quando prevista dal gioco, oppure la capacità di cambiare ruolo, sono fondamentali per lavorare sulla flessibilità mentale. Quindi attraverso il gioco possiamo veramente mettere dentro quei piccoli anticorpi cognitivi che ci saranno utili per interagire in una società che sempre più precocemente ci espone a stimoli eccessivi, molto veloci, che vanno a discapito della nostra attenzione.

Se da una parte è vero che si può sempre lavorare in tutto l’arco della vita, possiamo sempre cerca di stimolarci e migliorare le nostre attività cognitive, è anche vero che il guadagno che noi abbiamo dall’investire molto precocemente è maggiore di quello che potremmo ottenere intervenendo quando spesso le situazioni ci si presentano davanti agli occhi in maniera evidente. Vuol dire che devo preoccuparmi prima di lavorare sullo sviluppo delle competenze cognitive dei bambini già in epoca prescolare, e ancora prima, piuttosto che pensare di intervenire con dei programmi di miglioramento o di potenziamento nell’età della scuola primaria, che sono i benvenuti, però stiamo intervenendo quando spesso le difficoltà si sono già manifestate, e siccome al netto di situazioni che vanno nell’ambito dello sviluppo atipico, quali dislessia, disturbi dell’apprendimento eccetera, noi sappiamo che c’è una grande variabilità individuale nella capacità di usare l’attenzione, quindi non dobbiamo lavorare solo sui programmi per bambini che hanno delle difficoltà evidenti, ma dobbiamo preoccuparci di intervenire precocemente per indurre delle traiettorie di sviluppo il più possibili funzionali.

Questo lo possiamo fare attraverso dei programmi specifici a scuola, come ad esempio abbiamo fatto nell’istituto comprensivo con il quale collaboro nei pressi di Padova, dove abbiamo realizzato un progetto di ricerca-intervento introducendo un programma di mindfulness e yoga per bambini cercando di unire l’aspetto scientifico. In pratica abbiamo valutato alcuni aspetti di funzionamento attentivo e di controllo cognitivo in bambini di età prescolare dai 4 ai 6 anni, prima e dopo l’intervento e abbiamo visto dei notevoli miglioramenti sia nei punteggi ai test che abbiamo utilizzato sia anche ai questionari rivolti ai genitori. Questo è un qualcosa che può essere reso strutturale mediante ad esempio l’adozione di un programma ministeriale perché le prove scientifiche di efficacia ci sono. Il resto lo dobbiamo fare noi genitori a casa e tutti gli educatori in generale, dobbiamo pensare che tutta la comunità è educante, non ci sono solo i genitori o la scuola.

Tutti dobbiamo essere consapevoli del fatto che da una parte ci sono delle cose che si possono cambiare nella vita, delle pratiche sbagliate degli aspetti sui quali possiamo intervenire, dall’altra parte dobbiamo essere consapevoli che ci sono aspetti sui quali non è possibile intervenire perché se parliamo di difficoltà abbastanza importanti nell’ambito dei disturbi del neurosviluppo il nostro range d’azione è molto più limitato, anche se ovviamente possiamo lavorare. La cosa importante è capire la differenza, capire che siamo noi che possiamo fare la differenza, che è la società che deve intervenire precocemente, se non siamo consapevoli di quali sono le problematiche alle quali si può andare incontro ci troveremo sempre a rincorrere, e fuori tempo massimo, nel dover intervenire rispetto a quello che si può già fare molto precocemente.

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