Sud, c’è il rischio astensionismo

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Mezzogiorno, 17 agosto 2022 – 08:26 di Marco Demarco Dal figlio Piero al vice Bonavitacola. I candidati del governatore ci sono tutti, e non sono pochi, anzi. Ma il fatto è che nelle liste Pd in Campania c’è anche altro, ci sono ad esempio i ministri Franceschini e Speranza. E se la presenza del primo non è una sorpresa, visti i ripetuti impegni assunti sul fronte dei musei e dei siti archeologici regionali, quella del secondo lo è, eccome, perché si ricorderanno tutte le volte che De Luca ha tuonato contro il responsabile della Sanità, fino a definirlo «totalmente inesistente». Il Pd si conferma, dunque, il partito degli opposti che si tengono. Quello nazionale che si impegnò a ridiscutere il ruolo di De Luca in Campania, quando si cominciò a parlare di un suo possibile terzo mandato, è sceso a patti con lui. E il governatore che fino a ieri ha definito «all’amatriciana e alla carbonara» il Pd nazionale, perché ritenuto parolaio e inconcludente, non ha esitato a sedersi alla stessa tavola e a condividere le stesse pietanze indigeste. Realismo politico? Tatticismo elettorale? Commedia delle parti? Opportunismo pesantemente condito? Per il momento viene in mente una precedente campagna elettorale a base di fritture di pesce. E le associazioni di idee, si sa, non scattano mai a caso. La questione di fondo, quella più generale, è allora come, alla vigilia del voto, il Sud partecipa alla discussione sull’Italia che verrà. È opinione diffusa che dopo aver sorretto il populismo dei Cinquestelle, il Sud possa ora optare per l’astensionismo tout court. Di questo, e dell’implicito vantaggio che il non voto porterebbe alla destra, avanti nei sondaggi, si dice convinto, ad esempio, il sindaco Manfredi. Tradotto, vuol dire che il Sud potrebbe passare dalla protesta indignata, moralizzatrice, ideologica e tutto sommato iper-politica, alla rinuncia ipo-politica. Lo scenario è realistico. Specialmente di fronte a certi spettacoli e a certe tavolate. Ma sarebbe certo il colmo se davvero dovesse avverarsi nella città e nella regione in cui il centrosinistra si vanta di aver sperimentato le alleanze più innovative (l’ex campo largo di Letta e Conte) e le pratiche di governo più efficaci (il pragmatismo deluchiano). Da qui il dilemma: perché un governo locale tanto convinto dei propri meriti si percepisce poi così poco influente sul voto politico? A Milano, Sala promuove manifesti, tesse relazioni forti, e il Pd mette in lista Cottarelli. In Emilia-Romagna, Bonaccini non passa giorno che non faccia notare quanto «riformisti» e «progressisti» siano gli inceneritori della sua regione e gli asili nido in cui si parla inglese. In Veneto, Zaia lavora per fare da argine al pregiudizio antileghista, in particolare sul tema dei diritti civili, e non a caso dice che «la patologia è l’omofobia, non l’omosessualità». In Campania, invece, dopo aver tanto tuonato, De Luca ha improvvisamente abbassato i toni. Ora è chiaro perché. Stava trattando per sé e per i suoi. E il dubbio che i toni accesi di prima servissero solo ad alzare il prezzo della contrattazione non fa altro che scolorire gli stessi contenuti programmatici della sua polemica con il partito di riferimento. Manfredi, invece, in un’intervista a Repubblica , ha sostanzialmente usato due argomenti: ha lamentato la marginalità nel dibattito elettorale della questione meridionale (ma attribuendola alla distrazione dei partiti nazionali) e ha ribadito il no alla prospettiva dell’autonomia differenziata, resa ancora più cupa dall’aggravante del presidenzialismo programmato dal centrodestra. L’impressione, tirando le somme, è che il Nord abbia qualcosa da dire e che il Sud abbia semmai qualcosa da temere o da contrattare. Il Nord «per», il Sud «contro». Non è forse questo lo schema che indebolisce le nostre leadership ed esclude il Sud dalla discussione nazionale? Il rischio, insomma, è che il Nord si proponga al Paese come espressione delle passioni positive, dell’attivismo avverso al fatalismo; e che il Sud si condanni invece a riflettere le passioni tristi, la paura per le riforme, il rancore per l’abbandono da parte dello Stato, la rassegnazione di chi non trovando quel che desidera si accontenta di quello che trova. Perciò, il fatto specifico del governatore «pigliatutto» c’è e farà rumore. Ma non spiega tutto. Spiega di più, probabilmente, proprio ciò che lo stesso governatore ha scritto nel suo ultimo libro. Ossia, che «la democrazia non è la quantità di parole prodotte, ma la quantità di decisioni assunte». Ecco il punto. Conta ciò che si è fatto, non ciò su cui si discetta. E finché le amministrazione del Nord avranno modelli solidi su cui far leva e quelle del Sud prioritariamente giustificazioni o rivendicazioni a cui aggrapparsi, sarà assai difficile portare elettori meridionali in cabina e battere la destra che tanto si dice di temere. 17 agosto 2022 | 08:26 © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-08-17 06:27:00, Mezzogiorno, 17 agosto 2022 – 08:26 di Marco Demarco Dal figlio Piero al vice Bonavitacola. I candidati del governatore ci sono tutti, e non sono pochi, anzi. Ma il fatto è che nelle liste Pd in Campania c’è anche altro, ci sono ad esempio i ministri Franceschini e Speranza. E se la presenza del primo non è una sorpresa, visti i ripetuti impegni assunti sul fronte dei musei e dei siti archeologici regionali, quella del secondo lo è, eccome, perché si ricorderanno tutte le volte che De Luca ha tuonato contro il responsabile della Sanità, fino a definirlo «totalmente inesistente». Il Pd si conferma, dunque, il partito degli opposti che si tengono. Quello nazionale che si impegnò a ridiscutere il ruolo di De Luca in Campania, quando si cominciò a parlare di un suo possibile terzo mandato, è sceso a patti con lui. E il governatore che fino a ieri ha definito «all’amatriciana e alla carbonara» il Pd nazionale, perché ritenuto parolaio e inconcludente, non ha esitato a sedersi alla stessa tavola e a condividere le stesse pietanze indigeste. Realismo politico? Tatticismo elettorale? Commedia delle parti? Opportunismo pesantemente condito? Per il momento viene in mente una precedente campagna elettorale a base di fritture di pesce. E le associazioni di idee, si sa, non scattano mai a caso. La questione di fondo, quella più generale, è allora come, alla vigilia del voto, il Sud partecipa alla discussione sull’Italia che verrà. È opinione diffusa che dopo aver sorretto il populismo dei Cinquestelle, il Sud possa ora optare per l’astensionismo tout court. Di questo, e dell’implicito vantaggio che il non voto porterebbe alla destra, avanti nei sondaggi, si dice convinto, ad esempio, il sindaco Manfredi. Tradotto, vuol dire che il Sud potrebbe passare dalla protesta indignata, moralizzatrice, ideologica e tutto sommato iper-politica, alla rinuncia ipo-politica. Lo scenario è realistico. Specialmente di fronte a certi spettacoli e a certe tavolate. Ma sarebbe certo il colmo se davvero dovesse avverarsi nella città e nella regione in cui il centrosinistra si vanta di aver sperimentato le alleanze più innovative (l’ex campo largo di Letta e Conte) e le pratiche di governo più efficaci (il pragmatismo deluchiano). Da qui il dilemma: perché un governo locale tanto convinto dei propri meriti si percepisce poi così poco influente sul voto politico? A Milano, Sala promuove manifesti, tesse relazioni forti, e il Pd mette in lista Cottarelli. In Emilia-Romagna, Bonaccini non passa giorno che non faccia notare quanto «riformisti» e «progressisti» siano gli inceneritori della sua regione e gli asili nido in cui si parla inglese. In Veneto, Zaia lavora per fare da argine al pregiudizio antileghista, in particolare sul tema dei diritti civili, e non a caso dice che «la patologia è l’omofobia, non l’omosessualità». In Campania, invece, dopo aver tanto tuonato, De Luca ha improvvisamente abbassato i toni. Ora è chiaro perché. Stava trattando per sé e per i suoi. E il dubbio che i toni accesi di prima servissero solo ad alzare il prezzo della contrattazione non fa altro che scolorire gli stessi contenuti programmatici della sua polemica con il partito di riferimento. Manfredi, invece, in un’intervista a Repubblica , ha sostanzialmente usato due argomenti: ha lamentato la marginalità nel dibattito elettorale della questione meridionale (ma attribuendola alla distrazione dei partiti nazionali) e ha ribadito il no alla prospettiva dell’autonomia differenziata, resa ancora più cupa dall’aggravante del presidenzialismo programmato dal centrodestra. L’impressione, tirando le somme, è che il Nord abbia qualcosa da dire e che il Sud abbia semmai qualcosa da temere o da contrattare. Il Nord «per», il Sud «contro». Non è forse questo lo schema che indebolisce le nostre leadership ed esclude il Sud dalla discussione nazionale? Il rischio, insomma, è che il Nord si proponga al Paese come espressione delle passioni positive, dell’attivismo avverso al fatalismo; e che il Sud si condanni invece a riflettere le passioni tristi, la paura per le riforme, il rancore per l’abbandono da parte dello Stato, la rassegnazione di chi non trovando quel che desidera si accontenta di quello che trova. Perciò, il fatto specifico del governatore «pigliatutto» c’è e farà rumore. Ma non spiega tutto. Spiega di più, probabilmente, proprio ciò che lo stesso governatore ha scritto nel suo ultimo libro. Ossia, che «la democrazia non è la quantità di parole prodotte, ma la quantità di decisioni assunte». Ecco il punto. Conta ciò che si è fatto, non ciò su cui si discetta. E finché le amministrazione del Nord avranno modelli solidi su cui far leva e quelle del Sud prioritariamente giustificazioni o rivendicazioni a cui aggrapparsi, sarà assai difficile portare elettori meridionali in cabina e battere la destra che tanto si dice di temere. 17 agosto 2022 | 08:26 © RIPRODUZIONE RISERVATA ,

Pietro Guerra

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