editoriale Mezzogiorno, 8 novembre 2022 – 07:47 di Marco Demarco In una pausa del vertice Nato di Madrid del giugno scorso, Mario Draghi avvicina il suo ministro della Difesa, Lorenzo Guerini. «Scusa, Lorenzo, ma chi diamine è De Masi?». «Ma De Masi chi, il professore?». Proprio lui. Alla radio, il sociologo Domenico De Masi aveva appena raccontato che Draghi voleva la testa di Conte e per questo si era rivolto a Grillo. La scena è tratta da “Ultima fermata”, il libro-gossip di Tommaso Labate ed è l’incipit del capitolo che ricostruisce come si è arrivati alla caduta del governo e alle elezioni. Il senso del racconto è che se De Masi dichiara, qualcosa è nell’aria. Dunque, attenzione. Ora De Masi è tornato sulla scena, e per giunta non è più solo. Con lui c’è D’Alema, e questa volta l’obiettivo è il Pd. D’Alema immagina un’unica area progressista, ma con compiti ben distinti: da una parte la sinistra di Conte a rappresentare le periferie della società, dall’altra il polo liberalcentrista del Pd a occuparsi del resto, in particolare delle cosiddette zone a traffico limitato, dove il partito di Letta è più radicato. De Masi immagina invece la stessa area politica divisa in altro modo: al Sud, il movimento di Conte; al Nord, il Pd. Intervistato da Simona Brandolini per il Corriere del Mezzogiorno, il teorico dell’ozio creativo è stato addirittura più esplicito. Intorno a Conte – ha detto – si dovrebbe coagulare l’intero gruppo di persone che da tempo si occupa del Sud, dal vertice della Svimez a Gianfranco Viesti, il primo a parlare di secessione dei ricchi a proposito dell’autonomia reclamata dalle regioni del Nord. Si profila così un doppio confinamento, sociale e geografico, per un Pd che invece ancora ambisce a rappresentare l’intero territorio nazionale. A differenza di Draghi, però, il Pd – in buona parte, almeno – sembra subire la fatale manovra che lo spinge nell’angolo. Da qui un paio di domande. La prima. Perché il Pd dovrebbe lasciarsi confinare nel campo delle Ztl, che è poi il campo dei ceti garantiti, delle questioni ideali e dei valori postmaterialisti? La seconda. E perché mai dovrebbe incoraggiare la nascita di un partito del Sud pronto a riconoscersi nella leadership contiana? Le risposte al prossimo congresso. Intanto, però, ci sono i fatti. Sul primo punto, quello delle questioni «postmaterialiste», fanno fede molte delle idee di recente messe in campo dal Pd. Ad esempio, quella di una presunta sudditanza femminile di Giorgia Meloni. O quella sulla scuola che non dovrebbe premiare il merito, ma l’appiattimento cognitivo. O, ancora, quella sulla centralità dell’Accademia della Crusca nella lotta politica. Tutte posizioni che rivelano un Pd con un debole per l’inverosimile, per ciò che è privo di rispondenza alla realtà o comunque poco aderente alla necessità. Sul secondo punto, quello «sudista», è invece indicativa la battaglia ingaggiata dal Pd meridionale contro l’autonomia differenziata. La tesi – inverosimile anche questa – è che l’autonomia prevista dalla Costituzione, votata dal parlamento e confermata da un referendum popolare dall’esito inequivocabile, sarebbe incostituzionale. Cioè contraria alla Costituzione stessa. Col paradosso aggiuntivo che a definire incostituzionale l’autonomia è, sempre più spesso, anche chi – come il costituzionalista Massimo Villone – a suo tempo votò per inserirla nella Carta. Ma alla scarsa linearità del procedere si aggiunge ora il masochismo. Sempre sul regionalismo, infatti, il movimento di Conte non rischia alcuna contraddizione, non esprimendo neanche un governatore. Mentre Pd di governatori ne ha ben cinque, di cui due (Emiliano e De Luca) ambiguamente contro e due (Giani e Bonaccini) convintamente a favore. Da qui almeno due conseguenze. La prima è che ogni coppia governatoriale è motivo di imbarazzo per l’altra. E la seconda è che l’imbarazzo generale sta ormai «consumando» l’intero partito, come l’altro giorno ha rivelato la polemica che ha visto il «nordista» Fassino letteralmente messo in croce dal fronte avverso. Proprio questo episodio, poi, rivela un altro punto critico del Pd. Quello di un anti-autonomismo che al Sud non è, ormai, una «questione», cioè un nodo da sciogliere, ma un vero e proprio valore identitario, di quelli che o stai con noi o stai contro di noi. Per cui in tutto il Mezzogiorno si è aperta la gara a chi è più anti-autonomista dell’altro, a chi la spara più grossa contro le regioni del Nord. O contro una Costituzione che dall’essere la più bella del mondo è improvvisamente diventata la più incostituzionale di tutti i tempi. O, ancora, contro il regionalismo in quanto tale, sempre evitando – salvo rarissime eccezioni – di affondare la critica a De Luca ed Emiliano. E mai ponendosi, viceversa, il problema deI pluralismo istituzionale, che ovunque, nell’Europa liberale, è considerato un presidio democratico insacrificabile. Così il Pd non solo sta facendo il gioco di De Masi e D’Alema. Ma ha già perso un pezzo della sua storia: quello di un partito plurale al suo interno. E non opportunisticamente «duale». Perché chi mai, in questo clima, a costo di passare per «nordista», si azzarderebbe a far valere una visione meno ideologica e più problematica dell’autonomia differenziata? Non a caso, finora, in tutto il Sud, non un parlamentare, non un costituzionalista o un intellettuale di area si è distinto per essersi posto fuori dal coro. 8 novembre 2022 | 07:47 © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-11-08 06:48:00, editoriale Mezzogiorno, 8 novembre 2022 – 07:47 di Marco Demarco In una pausa del vertice Nato di Madrid del giugno scorso, Mario Draghi avvicina il suo ministro della Difesa, Lorenzo Guerini. «Scusa, Lorenzo, ma chi diamine è De Masi?». «Ma De Masi chi, il professore?». Proprio lui. Alla radio, il sociologo Domenico De Masi aveva appena raccontato che Draghi voleva la testa di Conte e per questo si era rivolto a Grillo. La scena è tratta da “Ultima fermata”, il libro-gossip di Tommaso Labate ed è l’incipit del capitolo che ricostruisce come si è arrivati alla caduta del governo e alle elezioni. Il senso del racconto è che se De Masi dichiara, qualcosa è nell’aria. Dunque, attenzione. Ora De Masi è tornato sulla scena, e per giunta non è più solo. Con lui c’è D’Alema, e questa volta l’obiettivo è il Pd. D’Alema immagina un’unica area progressista, ma con compiti ben distinti: da una parte la sinistra di Conte a rappresentare le periferie della società, dall’altra il polo liberalcentrista del Pd a occuparsi del resto, in particolare delle cosiddette zone a traffico limitato, dove il partito di Letta è più radicato. De Masi immagina invece la stessa area politica divisa in altro modo: al Sud, il movimento di Conte; al Nord, il Pd. Intervistato da Simona Brandolini per il Corriere del Mezzogiorno, il teorico dell’ozio creativo è stato addirittura più esplicito. Intorno a Conte – ha detto – si dovrebbe coagulare l’intero gruppo di persone che da tempo si occupa del Sud, dal vertice della Svimez a Gianfranco Viesti, il primo a parlare di secessione dei ricchi a proposito dell’autonomia reclamata dalle regioni del Nord. Si profila così un doppio confinamento, sociale e geografico, per un Pd che invece ancora ambisce a rappresentare l’intero territorio nazionale. A differenza di Draghi, però, il Pd – in buona parte, almeno – sembra subire la fatale manovra che lo spinge nell’angolo. Da qui un paio di domande. La prima. Perché il Pd dovrebbe lasciarsi confinare nel campo delle Ztl, che è poi il campo dei ceti garantiti, delle questioni ideali e dei valori postmaterialisti? La seconda. E perché mai dovrebbe incoraggiare la nascita di un partito del Sud pronto a riconoscersi nella leadership contiana? Le risposte al prossimo congresso. Intanto, però, ci sono i fatti. Sul primo punto, quello delle questioni «postmaterialiste», fanno fede molte delle idee di recente messe in campo dal Pd. Ad esempio, quella di una presunta sudditanza femminile di Giorgia Meloni. O quella sulla scuola che non dovrebbe premiare il merito, ma l’appiattimento cognitivo. O, ancora, quella sulla centralità dell’Accademia della Crusca nella lotta politica. Tutte posizioni che rivelano un Pd con un debole per l’inverosimile, per ciò che è privo di rispondenza alla realtà o comunque poco aderente alla necessità. Sul secondo punto, quello «sudista», è invece indicativa la battaglia ingaggiata dal Pd meridionale contro l’autonomia differenziata. La tesi – inverosimile anche questa – è che l’autonomia prevista dalla Costituzione, votata dal parlamento e confermata da un referendum popolare dall’esito inequivocabile, sarebbe incostituzionale. Cioè contraria alla Costituzione stessa. Col paradosso aggiuntivo che a definire incostituzionale l’autonomia è, sempre più spesso, anche chi – come il costituzionalista Massimo Villone – a suo tempo votò per inserirla nella Carta. Ma alla scarsa linearità del procedere si aggiunge ora il masochismo. Sempre sul regionalismo, infatti, il movimento di Conte non rischia alcuna contraddizione, non esprimendo neanche un governatore. Mentre Pd di governatori ne ha ben cinque, di cui due (Emiliano e De Luca) ambiguamente contro e due (Giani e Bonaccini) convintamente a favore. Da qui almeno due conseguenze. La prima è che ogni coppia governatoriale è motivo di imbarazzo per l’altra. E la seconda è che l’imbarazzo generale sta ormai «consumando» l’intero partito, come l’altro giorno ha rivelato la polemica che ha visto il «nordista» Fassino letteralmente messo in croce dal fronte avverso. Proprio questo episodio, poi, rivela un altro punto critico del Pd. Quello di un anti-autonomismo che al Sud non è, ormai, una «questione», cioè un nodo da sciogliere, ma un vero e proprio valore identitario, di quelli che o stai con noi o stai contro di noi. Per cui in tutto il Mezzogiorno si è aperta la gara a chi è più anti-autonomista dell’altro, a chi la spara più grossa contro le regioni del Nord. O contro una Costituzione che dall’essere la più bella del mondo è improvvisamente diventata la più incostituzionale di tutti i tempi. O, ancora, contro il regionalismo in quanto tale, sempre evitando – salvo rarissime eccezioni – di affondare la critica a De Luca ed Emiliano. E mai ponendosi, viceversa, il problema deI pluralismo istituzionale, che ovunque, nell’Europa liberale, è considerato un presidio democratico insacrificabile. Così il Pd non solo sta facendo il gioco di De Masi e D’Alema. Ma ha già perso un pezzo della sua storia: quello di un partito plurale al suo interno. E non opportunisticamente «duale». Perché chi mai, in questo clima, a costo di passare per «nordista», si azzarderebbe a far valere una visione meno ideologica e più problematica dell’autonomia differenziata? Non a caso, finora, in tutto il Sud, non un parlamentare, non un costituzionalista o un intellettuale di area si è distinto per essersi posto fuori dal coro. 8 novembre 2022 | 07:47 © RIPRODUZIONE RISERVATA ,