Tamaro-Verga, va dove ti porta il cuore e anche dove ti guida la ragione! Lettera

Tamaro-Verga, va dove ti porta il cuore e anche dove ti guida la ragione! Lettera

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Inviata da Damiano Pisanu – Da semplice lettore, vorrei esprimere il mio modesto parere sul dibattito in corso a seguito delle dichiarazioni espresse dalla Sig.ra Susanna Tamaro sulla letteratura italiana, i classici in genere ed in particolare l’opera di Giovanni Verga.

Che qualsiasi persona abbia il diritto e la libertà di esprimere delle preferenze letterarie, filosofiche religiose o altro, è fuori discussione, perché fanno parte della nostra sacrosanta autonomia. Ma quando si pretende o si auspica che queste preferenze vengano assunte a criterio generale anche per le scelte di politica culturale nelle istituzioni pubbliche
quali la scuola o in altre (Accademie, Fiera del Libro, Seminari letterari, etc.), allora le stesse non sono più un fatto privato, ma rivestono una valenza sociale, suscitando inevitabilmente una legittima presa di posizione da parte dell’opinione pubblica in generale o degli addetti ai lavori (professori universitari, critici letterari, membri delle Accademie, insegnanti, genitori e
studenti) a pro o a favore. Tre le tante risposte che si possono dare per salvaguardare sia il gusto personale della scrittrice in questione e sia la legittimità e la validità dell’insegnamento dei classici di cui si richiederebbe inopinatamente la cancellazione dai programmi didattici perché non più in sintonia con i tempi o perché noiosi o troppo impegnativi per gli studenti,
motivazioni francamente risibili e pretestuose, ritenendo evidentemente sufficiente alla formazione delle nuove generazioni solo la via del “cuore” e non anche quella della “ragione”, ritengo appropriata e ancora valida al caso che ci riguarda, l’autorevole parola di uno dei più grandi intellettuali del Novecento, qui di seguito riportata:

[……Detto questo non bisogna però commettere l’errore di ritenere che chi usa con libertà una lingua sia per questo linguisticamente libero. Qui il problema della libertà linguistica diventa molto simile al problema della libertà economica. Libero dalla schiavitù del denaro diventa San Francesco che prima il denaro ce l’ha e poi vi rinuncia di sua volontà, così come libero dalla schiavitù del colesterolo diventa chi potrebbe mangiare una bistecca ma vi rinuncia per mangiare grano saraceno. Ma chi di denaro e di bistecche è obbligato a non vederne mai, non è libero. Si salverà dai ladri o dall’infarto, ma non dal freddo e dall’avitaminosi.

Pertanto quando qualcuno dice «Io parlo come mi pare perché sono libero dalle costrizioni grammaticali», come se la grammatica fosse un lusso borghese, bisogna vedere da dove parte. Se la grammatica la sa e decide di violarla per ragioni poetiche o di provocazione politica è un conto, ma se la grammatica non la sa e la vìola per mancanza di conoscenze, è uno schiavo come colui che non ha denaro.

Cattiva grammatica (e naturalmente, vocabolario povero e ortografia imperfetta) equivalgono a scarso potere per due ragioni. La prima è che la lingua è anzitutto uno strumento di comunicazione. Talora usandola in modo «scorretto» si comunica benissimo, e anzi meglio ancora. Sappiamo tutti che «a me mi piace» non è corretto, ma quando lo diciamo, tutti capiscono cosa vogliamo dire. Ci sono però altri casi in cui la mancanza di vocabolario o l’incapacità di costruire frasi chiare sono una forma di handicap. E chi non sa parlare non riesce a farsi le proprie ragioni o a liquidare le false ragioni altrui, non riesce a cavarsela all’ufficio anagrafe o in questura e alla fine, com’è come non è, gliela mettono in saccoccia (e questa è una espressione scorretta ma chiara).

La seconda ragione è che la lingua di principio è uguale per tutti, ma i modi di usarla differiscono da gruppo a gruppo, da classe a classe, da professione a professione. I membri dei gruppi che hanno potere conoscono sia gli usi del loro gruppo sia quelli degli altri. Il che permette di riconoscere, classificare, escludere i vari utenti della lingua: secondo l’accento, l’uso di
certe parole, le costruzioni sintattiche. Si potrebbe dire che un giovane che assume con fierezza la propria emarginazione non desidererà mai di diventare membro del club dello yacht e quindi non ha bisogno di sapere come parlano i giovani italiani di famiglia ricca che hanno studiato alla London School of Economics. Ma potrebbe decidere di scrivere una lettera ai negozianti di una certa zona. Ebbene, anche costoro, che hanno i loro usi linguistici, si fidano delle lettere commerciali battute bene che dicono «La pregiata vostra», e se gli arriva una lettera con gli errori di ortografia e scritta a mano o con errori di battitura, subodorano il poveraccio e gli offrono la metà.

Può darsi che i miei argomenti siano molto terra terra, ma è la lingua che è terra terra; è uno strumento che serve per unire e per dividere, per liberare e per imprigionare.

Per cui, d’accordo con la libera inventività linguistica e non lasciamoci ricattare dalle regole. Ma queste cose andiamole a dire a chi ha già la libertà di conoscere le regole che dovrà e potrà violare. A chi non le conosce ancora, non raccontiamo menzogne: è dovere politico e sociale dirgli: «Qualcuno ti sta escludendo dal possesso di un bene collettivo, devi batterti per avere ciò che ti spetta. Se poi ti autoescludi da solo, allora fai il gioco di qualcun altro..].

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