di Filippo Mazzarella
La più lunga ed efferata sequenza di omicidi per l’ottavo lungometraggio del regista
Il 28 ottobre 1982 esce nelle sale italiane “Tenebre”, ottavo lungometraggio del maestro Dario Argento. Dopo le sperimentazioni onirico-surrealiste degli horror puri “Suspiria” (1977) e “Inferno” (1980), ovvero i primi due capitoli della cosiddetta Trilogia delle Tre Madri (che avrà un epilogo solo nel 2007, con il sofferto “La terza madre”), il regista tornava prepotentemente al thriller privo di elementi soprannaturali che aveva contraddistinto la sua carriera dall’esordio “L’uccello dalle piume di cristallo” (1970) fino all’acclamato e a suo modo rivoluzionario “Profondo rosso” (1975).
Ma, nel frattempo, l’onda lunga del “giallo” italiano (inaugurata da Mario Bava e Umberto Lenzi, proseguita tra gli altri da Sergio Martino, Lucio Fulci, Massimo Dallamano e Aldo Lado e portata ai suoi vertici teorico/immaginifici da Argento stesso) era praticamente finita; le immagini languivano, il furore si era spento, l’estetica dei sopravvissuti virava già verso l’inevitabile appiattimento televisivo, il depotenziamento della violenza, la stanchezza della ripetizione coatta. E Argento, ben consapevole di questo ripiegamento di senso, marchiò a fuoco il suo ritorno al genere (firmandone quello che a tutti gli effetti ne fu il definitivo e beffardo epitaffio) con una ferocia inaudita (che gli costò il primo divieto ai minori di 18 anni della sua filmografia) e una provocatoria libertà formale trascinando in una struttura solo apparentemente “normativa” gran parte delle sue ossessioni visive postmoderniste (come la passione per architettura e design, mutuata da Antonioni) e della sua profonda conoscenza sia dei meccanismi a sorpresa della letteratura poliziesca sia di quelli della costruzione della suspense.
In “Tenebre”, il giallista newyorkese Peter Neal (Anthony Franciosa) è a Roma coadiuvato dalla sua assistente Anne (Daria Nicolodi) per una serie di interviste poiché il suo ultimo romanzo è diventato a sorpresa un bestseller in Italia; e si ritrova al centro di una serie di omicidi che un misterioso serial killer lega a doppio filo alla sua opera. Dopo che una giovane cleptomane (Ania Pieroni) viene brutalmente uccisa dopo averne rubata una copia, lo scrittore reincontra a una conferenza stampa una sua compagna d’università lesbica (Mirella D’Angelo) che lo accusa pubblicamente di misoginia per il trattamento riservato alle vittime donne dei suoi libri. Anche quest’ultima e la sua compagna verranno massacrate dal maniaco, dopo che il capitano Germani (Giuliano Gemma) e l’ispettrice Altieri (Carola Stagnaro) gli avranno consegnato la lettera a lui indirizzata che l’assassino ha lasciato suo luogo dei suo primo delitto. Intervistato dal facoltoso giornalista Cristiano Berti (John Steiner) ossessionato dalla morbosità punitiva sconfinante nella psicopatologia dei suoi romanzi, Neal crede in un primo momento che questi possa essere l’assassino; ma le cose si complicano quando la sua ex Jane McKerrow (Veronica Lario), che da tempo lo pedina in segreto, entra a far parte del gioco. E quando anche Berti ci lascia le penne, la scoperta dell’identità del colpevole sembra allontanarsi di nuovo.
Anche unico sceneggiatore, Argento scrisse il soggetto di “Tenebre” in reazione a due precisi eventi: le stesse accuse di misoginia e crudeltà che beffardamente nella finzione fa ascrivere al protagonista/doppio di sé e le molestie telefoniche di un sedicente fan che diceva di volerlo assassinare. Il processo di elaborazione di entrambi lo portò a una riflessione sulle conseguenze della rappresentazione della violenza nel suo cinema e alla decisione più o meno conscia di esorcizzare il tutto in una maestosa e stordente dichiarazione di autoreferenzialità totale. Nel gioco metalinguistico del film, Argento si scatena non solo nella più lunga ed efferata sequenza di omicidi mai da lui messa in scena fino ad allora, ma anche in una progressiva e sfacciata irrisione delle aspettative del pubblico e soprattutto della logica narrativa ferrea che aveva sempre contraddistinto il suo stile: e se da un lato moltiplica i colpevoli e le palesi incongruenze di racconto, dall’altro oscilla tra il rigore di una messa in scena fotograficamente gelida dominata da luci bianche (in aperto contrasto con il buio evocato dal titolo la Roma della magnifica fotografia di Luciano Tovoli è spesso deserticamente assolata) e barocchismi clamorosi (come nella sequenza dei delitti a casa di Tilde, caratterizzata da inaudite acrobazie della cinepresa rese possibili dall’innovativa gru LoumaCrane), tra flashback cruenti ambiguamente onirici e destabilizzanti per la loro carica erotica (come quello che vede significativamente coinvolta una giovane Eva Robin’s) e momenti “splatter” stupefacenti/esilaranti in cui il sangue “dipinge” letteralmente lo schermo alla stregua di una performance d’arte moderna (come nella sequenza del braccio mozzato di Veronica Lario, futura signora Berlusconi, poi pesantemente censurata fin quasi all’espunzione da tutte le copie ancora circolanti in televisione).
Lieto di portare alle estreme conseguenze il puro artificio spettacolare del suo cinema esponendolo fino all’astrazione (o alla gratuità), Argento arrivò con “Tenebre” a quello che, a posteriori, fu come già detto l’ultimo e assoluto apice del giallo italiano (e contemporaneamente il suo rovescio) nonché della sua stessa Arte, poi lentamente -e inevitabilmente- ripiegatasi nel manierismo dopo che con “Phenomena” (1985) compì più o meno la stessa conscia e sfrenata operazione di decostruzione della sua idea di horror. Un film-cardine, non solo per il suo autore, ma per l’intera storia del cinema di genere italiano; che dopo quarant’anni non smette di affascinare e stupire, disorientare e (ci sia concesso) divertire.
27 ottobre 2022 (modifica il 27 ottobre 2022 | 11:32)
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, 2022-10-27 09:33:00, La più lunga ed efferata sequenza di omicidi per l’ottavo lungometraggio del regista , Filippo Mazzarella