«The Gilded Age», il piacere antico dell’età dorata americana

«The Gilded Age», il piacere antico dell’età dorata americana

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di Aldo Grasso

Lo streaming ha creato un nuovo modo di guardare un prodotto che incide sui canoni, sull’estetica, sulle convenzioni del prodotto stesso

Su Sky Serie sta andando in onda «The Gilded Age», il period drama creato dall’ideatore di «Downton Abbey» Julian Fellowes. Ci troviamo nell’età dorata americana (gilded non golden, l’età della doratura, un sottile velo d’oro e sotto materiali meno nobili; la definizione è di Mark Twain), alla fine del secolo XIX quando vecchi e nuovi ricchi si facevano la guerra in una New York brulicante e moderna. Nel cuore di Manhattan, le famiglie europee benestanti della prima ondata migratoria non hanno nessuna intenzione di cedere i loro privilegi. Ma intanto i «nuovi arrivati», europei anche loro ma emigrati più tardi, premono nelle porte. Sono ricchi e spietati, farebbero di tutto per conquistarsi un posto nell’alta società. «The Gilded Age» mi ha restituito un piacere antico (con rischio passatista, lo ammetto): la visione settimanale. Sono convinto che il principio fondante della serialità sia racchiuso nell’offerta settimanale, quasi completamente cancellata dalla modalità del «binge-watching».

Lo streaming ha creato un nuovo modo di guardare un prodotto che incide sui canoni, sull’estetica, sulle convenzioni del prodotto stesso. La serie diventa un film lungo sei o sette ore, ma la «vecchia» serialità era altra cosa. Era la metabolizzazione della trama, era l’attesa, era lo stato d’animo con cui si guardava una puntata (e gli stati d’animo, lo sappiamo, cambiano da una settimana all’altra e con essi il nostro modo di vedere), è il piacere di valutare la crescita o meno di una proposta («The Gilded Age» migliora dopo le prime puntate), è la sorpresa di riassaporare i piacere della telefilia, quella strana e testarda passione che confonde il piccolo schermo con la vita, quella determinazione che si esprime simultaneamente in un’idea di realtà e in un’idea di rappresentazione.Il «binge-watching» rischia di renderci tutti nerd, maniacali e ci avvia a una scrittura patologica.

27 marzo 2022 (modifica il 27 marzo 2022 | 14:41)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

, 2022-03-27 18:18:00,

di Aldo Grasso

Lo streaming ha creato un nuovo modo di guardare un prodotto che incide sui canoni, sull’estetica, sulle convenzioni del prodotto stesso

Su Sky Serie sta andando in onda «The Gilded Age», il period drama creato dall’ideatore di «Downton Abbey» Julian Fellowes. Ci troviamo nell’età dorata americana (gilded non golden, l’età della doratura, un sottile velo d’oro e sotto materiali meno nobili; la definizione è di Mark Twain), alla fine del secolo XIX quando vecchi e nuovi ricchi si facevano la guerra in una New York brulicante e moderna. Nel cuore di Manhattan, le famiglie europee benestanti della prima ondata migratoria non hanno nessuna intenzione di cedere i loro privilegi. Ma intanto i «nuovi arrivati», europei anche loro ma emigrati più tardi, premono nelle porte. Sono ricchi e spietati, farebbero di tutto per conquistarsi un posto nell’alta società. «The Gilded Age» mi ha restituito un piacere antico (con rischio passatista, lo ammetto): la visione settimanale. Sono convinto che il principio fondante della serialità sia racchiuso nell’offerta settimanale, quasi completamente cancellata dalla modalità del «binge-watching».

Lo streaming ha creato un nuovo modo di guardare un prodotto che incide sui canoni, sull’estetica, sulle convenzioni del prodotto stesso. La serie diventa un film lungo sei o sette ore, ma la «vecchia» serialità era altra cosa. Era la metabolizzazione della trama, era l’attesa, era lo stato d’animo con cui si guardava una puntata (e gli stati d’animo, lo sappiamo, cambiano da una settimana all’altra e con essi il nostro modo di vedere), è il piacere di valutare la crescita o meno di una proposta («The Gilded Age» migliora dopo le prime puntate), è la sorpresa di riassaporare i piacere della telefilia, quella strana e testarda passione che confonde il piccolo schermo con la vita, quella determinazione che si esprime simultaneamente in un’idea di realtà e in un’idea di rappresentazione.Il «binge-watching» rischia di renderci tutti nerd, maniacali e ci avvia a una scrittura patologica.

27 marzo 2022 (modifica il 27 marzo 2022 | 14:41)

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