Totò Cascio: «Per anni ho nascosto la mia cecità, adesso sono tornato il bambino di Nuovo Cinema Paradiso»

Totò Cascio: «Per anni ho nascosto la mia cecità, adesso sono tornato il bambino di Nuovo Cinema Paradiso»

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di Roberta Scorranese

A soli otto anni il film di Giuseppe Tornatore gli regala una popolarità internazionale. Ma poi scopre di avere la retinite pigmentosa e inizia un cammino doloroso verso la quasi totale perdita della vista. Oggi l’attore ha deciso di raccontarsi. E ricominciare

Per anni Totò Cascio è stato ossessionato da una battuta pronunciata da Alfredo in Nuovo Cinema Paradiso, una battuta che fa così: «Se dovessi perdere la vista, tu sarai i miei occhi». E in un certo senso lui, Totò, rappresentava davvero gli occhi di Alfredo, perché nel film di Giuseppe Tornatore lui era quel bambino che si affeziona al vecchio burbero proiezionista impersonato da Philippe Noiret. Totò era quel bambino con gli occhi neri che frequentava il cinema e cercava di recuperare gli spezzoni di film tagliati dalla censura, quello che maneggiava la pellicola, quel bambino che è diventato lo sguardo innocente di tutta l’Italia. Un bambino prodigio, perché dopo il film premio Oscar ha recitato con registi come Tessari, Avati, Ciprì e Maresco. Poi un silenzio profondo, difeso dalla curiosità dei giornalisti. Oggi, però, Totò ha 42 anni e finalmente, dopo decenni, ha deciso di raccontare la sua verità, una verità che — per una beffa del destino — è legata proprio agli occhi: «Ho la retinite pigmentosa, sono quasi del tutto privo della vista e non ne potevo più di nascondermi».

Che cosa riesce a vedere oggi?

«Le luci. Percepisco se in una stanza ci sono le finestre aperte, ma oggi sono abbastanza autonomo. Dopo anni di lavoro su me stesso ho imparato che il vittimismo serve a poco. Nei prossimi giorni, per esempio, dovrò andare in Toscana per presentare il mio libro, La gloria e la prova, e ci andrò da solo. Certo, mi verranno a prendere, ma io oggi vivo in quasi autonomia tra Bologna e la Sicilia e non escludo, un domani, di trasferirmi».

Lei aveva appena undici anni quando arrivò la diagnosi: retinite pigmentosa, appunto.

«Sì e dopo il successo internazionale di Nuovo Cinema Paradiso fioccavano le offerte. Io ero un bambino, non mi rendevo conto di tutto quello che stava succedendo. La premiazione agli Oscar, l’incontro con Sylvester Stallone, le battute con Celentano, i palleggi con Baggio e Vialli, i viaggi in Usa e in Giappone perché mi volevano negli spot pubblicitari. Ho conosciuto Gregory Peck e Glenn Ford, ho lavorato con Ennio Morricone, la famiglia Agnelli mi volle tra i testimonial del lancio della Fiat Cinquecento, nel 1991. Sentivo che tante cose avvenivano intorno a me ma non capivo bene e nei film più impegnativi mi annoiavo, come tutti i bambini».

E poi?

«E poi qualcuno intorno a me cominciò ad accorgersi che qualcosa nei miei occhi non funzionava. Anzi, fu Blasco Giurato, direttore della fotografia di Tornatore, a suggerire a mio padre di approfondire la cosa. La diagnosi, formulata in un importante centro di cura in Svizzera, non lasciava scampo: retinite pigmentosa, una grave malattia agli occhi che porta alla perdita progressiva della vista».

Lei però era molto giovane, ci vedeva ancora. Come reagì?

«Ignorando il problema, nascondendomi, cosa che ho fatto fino a quando non mi sono deciso a chiedere aiuto e a curarmi. Andavo a fare i provini e ovviamente ci si accorgeva che qualcosa non andava. Ma io immaginavo la cecità come il buio perfetto e fino a quando ho visto un poco di luce mi sono rifiutato di accettarla. È stato questo il mio errore: nascondermi. Se invece avessi chiesto subito aiuto non avrei vissuto fino a quasi 40 anni nell’isolamento più totale».

Che cosa la tratteneva?

«L’orgoglio, la paura di non piacere più, la paura che tutti cercassero ancora in me quel bambino senza mai trovarlo, la paura di non piacere alle donne, il terrore di deludere quelli che avevano scommesso sul bambino prodigio che ero stato, il timore di interrompere una carriera che mi aveva portato successo e anche un po’ di soldi, la diffidenza nei confronti degli altri. Oggi so che la vita è fatta anche di questi abissi. L’importante è accettarli, lavorarci, trovare un equilibrio».

Qual è la cosa che l’ha fatta più soffrire?

«Una volta una troupe televisiva venne a filmarmi senza avvisare nel supermercato di mio padre, dove mi ero messo a lavorare. Volevano fare uno scoop. Certo, non sapevano della mia malattia, ma volevano puntare sul tema, trito, del “che fine ha fatto”. Fu un grandissimo dolore».

C’è sempre quel senso pruriginoso di cercare chi non è più famoso, come se la fama, per sua natura, fosse infinita e costante.

«Io ero diventato un bambino famosissimo. Conversavo con Ennio Morricone, una volta dovevo mandargli un messaggio e lui mi disse che usava rigorosamente solo il fax. Ho conosciuto bene Fabrizio Frizzi, Corrado Mantoni, il mio mito Celentano. L’altro giorno ero a pranzo con Leonardo Pieraccioni, mio grande amico. Capisco chi per anni si è chiesto che fine avessi fatto».

Nelle sue parole — e anche nelle sue confessioni affidate al libro — si avverte una grande diffidenza. Da dove nasce?

«Se diventi molto famoso a soli otto anni in un paesino della Sicilia (tra Chiusa Sclafani e Palazzo Adriano, Palermo, ndr) devi aspettarti l’invidia. La cattiveria sotto forma di battute, piccole malignità anche per la mia famiglia. E poi non pensi che la malattia stessa sia immune da sarcasmo. Sia io che mio fratello, che peraltro soffre della mia stessa patologia, siamo stati bersagli facili. Tutto questo mi ha portato a chiudermi. Una volta, quando ormai erano passati anni dal film, feci una passeggiata con Tornatore. Lui mi chiese: “Che cosa c’è che non va?”. Non gli dissi nulla. Non dissi nulla nemmeno ai registi che mi cercavano, al massimo qualche volta rinunciavo io perché mi rendevo conto di non riuscire a farcela. Una volta Franco Zeffirelli mi invitò a casa sua per conoscermi di persona e vagliare la mia partecipazione a un suo progetto. Ma il mio occhio sinistro già allora tendeva a spostarsi di lato e l’effetto era di un leggero strabismo. Lui se ne accorse, il progetto andò in fumo».

Come è riuscito ad accettare la malattia e, dunque, anche il suo percorso di vita?

«Iniziando la psicoterapia, lavorando a contatto con altre persone che hanno la mia stessa forma di invalidità. Devo moltissimo all’istituto “Francesco Cavazza” di Bologna, dove si lavora per l’integrazione dei portatori di disabilità nel tessuto sociale. Adesso sono pronto per ricominciare. Vorrei portare La gloria e la prova, il libro che ho scritto per Baldini + Castoldi in teatro. Vorrei andare in giro a parlare a chi soffre del mio stesso disturbo. Vorrei, perché no, tornare a recitare. Vediamo».

Che cosa le manca?

«Non ho fatto in tempo a vedere il volto dei miei due nipotini, e questo è un grande rammarico. Poi, certo, mi manca il non poter guardare le belle donne, ma ho fatto in tempo a vedere i gol di Totti e, insomma, dai, va bene così».

rscorranese@corriere.it

29 marzo 2022 (modifica il 29 marzo 2022 | 09:41)

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, 2022-03-29 12:40:00, A soli otto anni il film di Giuseppe Tornatore gli regala una popolarità internazionale. Ma poi scopre di avere la retinite pigmentosa e inizia un cammino doloroso verso la quasi totale perdita della vista. Oggi l’attore ha deciso di raccontarsi. E ricominciare, Roberta Scorranese

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