Trattative, minacce e passioni Storia (repubblicana) dei pizzini

Trattative, minacce e passioni Storia (repubblicana) dei pizzini

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di Goffredo Buccini Dall’era Andreotti al precedente di Berlusconi nel 2008. Quando i cronisti a fine giornata frugavano nei cestini In fondo sono finestre sulla nostra anima, i pizzini: lasciate aperte talvolta per sbaglio, talaltra proprio perché ci si guardi dentro. E certo fa molta differenza politica stabilire se i cinque punti di censura vergati da Berlusconi contro Giorgia Meloni e lasciati lì, in quel foglio pasticciato sul banco del Senato in favore di zoom fotografico, siano sfuggiti al suo ego ammaccato o siano, com’è più plausibile, un deliberato preavviso di divorzio esibito urbi et orbi. Ma, di sicuro, sono già una crepa nell’epica forzista: perché datano senza pietà il nostro eroe che, tre legislature fa, nel 2008, all’apice del successo politico e di una ritrovata effervescenza emotiva, era estensore di ben altri messaggi alle colleghe in piena seduta parlamentare: «Care Nunzia e Gabry, state molto bene insieme! Grazie per restare qui ma non è necessario. Se avete qualche invito galante per colazione vi autorizzo ad andarvene… molti baci a tutte e due!!!», scriveva, sottolineando la parola «autorizzo» e firmandosi «il vostro presidente». Chissà se un po’ di quella strategia da attempato sciupafemmine avrebbe alleviato o aggravato la crisi nel nuovo centrodestra di governo. La storia della nostra Repubblica — prima , seconda o terza che sia — è comunque costellata da pezzetti di carta, coriandoli di trattative e minacce, amori e rancori, che passano di mano in mano, suscitando curiosità, polemiche, talvolta sorrisi. Clemente Mastella ne ricorda una precisa liturgia che poteva costituire notizia in sé: «Tu davi il biglietto al commesso e tutti nell’emiciclo ne seguivano con lo sguardo il percorso per scoprire il destinatario e da lì il senso politico eventuale. Cossiga era un grande estensore di pizzini. Anche Andreotti lo era». Il Picconatore si dilettava a distribuire salaci commenti durante i fluviali interventi di Romano Prodi, strappando un sorriso perfino al prodianissimo Parisi (ma non a D’Alema, che alla lettura pare non facesse vibrare nemmeno un pelo del baffo). Persino per il Divo scudocrociato non tutto era politica politicante. Se ne ricordano sulfurei messaggi su Emma Bonino, «metà Giovanna D’Arco e metà Vispa Teresa» e irridenti bigliettini a Ingrao per gli scarsi voti raggranellati dal Pci nel suo paese natale, Lenola: 7 su 3000! Mutuati dal codice di comunicazione mafioso («carissimo Zio», scrivevano i picciotti a Binnu Provenzano ricevendone ordini segreti sui pezzetti di carta, pizzini in siciliano, appunto), nell’elusivo gergo della politica questi sussurri d’inchiostro hanno subìto spesso un rovesciamento di senso. Si nasconde per mostrare, magari senza assumersene diretta responsabilità. «Nel caso di Berlusconi e Meloni non ci sono dubbi, il pizzino era in favore di telecamera», ridacchia Claudio Velardi, altro navigatore di lungo corso in questi mari: «Ma talvolta è frutto di ingenuità». Caso di scuola, manco a dirlo, è Enrico Letta che, assai prima di scoprirsi occhi di tigre prese un notevole abbaglio esponendosi in un sostegno a Monti degno di un’accaldata cheerleader: «Mario, quando vuoi dimmi forme e modi con cui posso esserti utile dall’esterno. Sia ufficialmente (Bersani mi chiede di interagire per la questione dei vice) sia riservatamente. Per ora mi sembra tutto un miracolo! E allora i miracoli esistono!». Si era nel novembre del 2011 e il professore in loden, appena nominato premier tecnico con l’incarico (consueto) di salvare l’Italia, lesse il biglietto in favore di fotografi, forse per inesperienza, forse per malizia. E Letta, allora numero due del Pd, fu sommerso dagli aspiranti viceministri: «Aiuto! Mai più letterine in vita mia», giurò sui social. Berlusconi aveva pochi giorni prima concluso la sua ultima travagliata permanenza a Palazzo Chigi con un altro pizzino famoso, sugli «8 traditori» sfilatisi dalla maggioranza all’atto di votare per il Rendiconto generale dello Stato. Poiché alle nostre latitudini riusciamo spesso a rendere gravi le cose non serie e grottesche quelle serie, le incursioni fotografiche produssero una sorta di fatwa parlamentare contro i colleghi muniti di zoom o telecamera, con tanto di immancabile codice di autoregolamentazione. «Che davvero si tratti di pizzini è ora provato da questa voglia dilagante di proteggerli per regolamento», annotò Francesco Merlo su Repubblica. E tuttavia tali reiterati tentativi di bavaglio liberticida non hanno mai funzionato davvero, come provano gli ultimi nostri giorni avvelenati. Anzi, questo nascondere per scoprire non fa altro che alzare la curiosità e la pressione politica sugli scritti galeotti o clandestini dei nostri rappresentanti, come nella danza dei sette veli, che per gli anglosassoni ha assunto anche il senso di metafora della rivelazione graduale, di spogliarello dell’informazione. «Una volta, finite le riunioni, i cronisti si mettevano a frugare nei cestini. Le notizie erano lì, nei pizzini incautamente gettati via», ricorda Velardi. E sugli alberi c’erano ancora le sorbe… Ma quando Renzi, da premier, provò a circuire un Di Maio ancora in modalità vaffa («Scusa l’ingenuità, caro Luigi,ma è impossibile confrontarsi? Giusto per capire, voi fate sempre così?»), quello mise tutto su Facebook, chiosando: «Basta con questi biglietti berlusconiani, ci vediamo alla prova dei voti, davanti al Paese intero». Otto anni dopo, «Giggino» è fuori dal Parlamento e i pizzini del Cavaliere ancora ci fanno battere il cuore. 15 ottobre 2022 (modifica il 15 ottobre 2022 | 21:16) © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-10-15 20:24:00, Dall’era Andreotti al precedente di Berlusconi nel 2008. Quando i cronisti a fine giornata frugavano nei cestini, Goffredo Buccini

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