di Lorenzo Cremonesi
Il Cremlino apre un piccolo spiraglio sulle trattative. Ma Zelensky vuole il ritorno ai confini del ‘91 e la stragrande maggioranza del Paese è con lui
DAL NOSTRO INVIATO A BAKHMUT – «Volodymyr Zelensky si troverà la rivolta in casa, se dovesse scegliere di cedere il territorio bagnato dal sangue dei soldati e dei volontari ucraini che lo difendono ad ogni prezzo per una finta pace col criminale Putin», dicono sul fronte del Donbass. Non serve molto per comprendere il tipo di problemi e pressioni cui è soggetto il presidente ucraino nella prospettiva di un negoziato con Mosca.
Da Washington il presidente Joe Biden, dopo gli incontri di giovedì con Emmanuel Macron, si è detto pronto a parlare con Vladimir Putin, se fosse «disposto a cercare un modo per terminare la guerra». Il tema monta in vista della conferenza di Parigi il 13 dicembre, volta proprio a rilanciare la via della soluzione diplomatica, che dovrebbe essere facilitata da un prossimo faccia a faccia tra Macron e Putin. «Joe Biden non ha intenzione di parlare con Vladimir Putin ora», ha precisato il portavoce del consiglio per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca John Kirby, sottolineando che spetta all’Ucraina decidere se e quando può essere negoziato un accordo.
Da Mosca replicano che il presidente russo «è sempre stato disposto a negoziare», con la postilla però «che si rispettino i nostri interessi». Quali? Primo tra tutti, che la comunità interazionale riconosca i territori ucraini occupati dalla Russia. In una conversazione telefonica col cancelliere tedesco Olaf Scholz, Putin ha definito poi «distruttiva» la linea dei Paesi occidentali, accusandoli per le armi fornite all’esercito ucraino.
A ben vedere, dunque, Kiev e Mosca restano in piena rotta di collisione. È sufficiente venire a Bakhmut, che è il punto più caldo del Donbass, e parlare con ufficiali, soldati e anche tanti civili (benché questi ultimi non tutti) per toccare con mano con quanta determinazione e spirito di sacrificio la popolazione ucraina si sia mobilitata per combattere l’invasione voluta da Putin.
Lo rivelano tra l’altro anche gli studi sociologici e i sondaggi degli ultimi mesi: l’effetto boomerang della guerra è stato la crescita esponenziale del nazionalismo ucraino. E adesso ogni soldato morto o ferito, ogni nuovo attacco contro le infrastrutture pubbliche, ogni sofferenza in più provocata dall’aggressione, non fanno che cementare ulteriormente il senso di unità tra soldati e società civile.
Tanto che, se prima del 24 febbraio scorso l’invasione russa nel 2014 della Crimea e la nascita delle province indipendentiste del Lugansk e Donetsk (garantite dagli aiuti finanziari e militari di Mosca) erano temi assopiti e certamente non all’ordine del giorno, oggi ormai la richiesta di «tornare ai confini del 1991» è diventata una sorta di dogma popolare che Zelensky e il suo governo hanno sposato pienamente.
Negli ultimi tre giorni abbiamo parlato almeno con una cinquantina tra soldati e ufficiali impegnati tra le trincee della prima linea di Bakhmut e le sue retrovie: nessuno degli intervistati ha espresso alcun dubbio sulla necessità di «liberare sia le terre occupate nel 2022 che nel 2014».
Anche la scelta ieri del presidente di proporre un disegno di legge per vietare le attività del Patriarcato ortodosso legato alla chiesa di Mosca, soltanto un anno fa sarebbe stata impensabile, oggi è in coerenza con la logica del muro contro muro.
2 dicembre 2022 (modifica il 3 dicembre 2022 | 00:02)
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