Ultime notizie: “La toga che va in politica perde la sua imparzialità”

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«Il problema non è solo che il magistrato che va a fare politica perde per sempre l’immagine di imparzialità che è indispensabile per fare il giudice. Il problema è che in quel periodo il magistrato fa il politico a tutti gli effetti: vive in quel mondo, fa trattative, cordate, partecipa ad alleanze. Tutte attività connaturate alla politica. Ma poi quando si rimette la toga cosa fa? Si dimentica di amici e avversari? Non credo proprio. E allora la soluzione è una sola: impedirgli di tornare a fare il magistrato».

Bartolomeo Romano, ordinario di diritto penale nell’università di Palermo, il mondo dove si incrociano magistratura e politica lo conosce bene, avendo fatto parte del Csm dal 2010 al 2014. E non nasconde i propri dubbi sul tentativo del ministro Marta Cartabia di mettere mano a due tra i mali atavici della giustizia: le «porte girevoli» tra magistratura e politica, e la lottizzazione correntizia del Csm.

I magistrati dicono: siamo cittadini con pieni diritti, non si può impedirci di farci eleggere in Parlamento, si violerebbe la Costituzione.

«Hanno ragione. Hanno diritto di candidarsi e di mantenere un posto di lavoro quando cessano il mandato. Ma non possono pretendere di tornare a fare i magistrati per il semplice motivo che ogni loro decisione verrebbe interpretata alla luce della loro conclamata fede politica. E questo non è accettabile. Fare il magistrato è un lavoro delicato, serve non solo essere ma anche apparire imparziale».

Non è sufficiente il divieto attuale di tornare a esercitare dove si è stati eletti?

«Assolutamente no. Nel momento in cui di un giudice diventa nota l’appartenenza politica questa vale dappertutto, il sospetto di favorire i suoi amici e di contrastare gli avversari lo accompagnerà ovunque vada. E poi ci sono posti da cui si copre l’intera nazione: da avvocato, mi sono trovato davanti un autorevole esponente di un partito politico appena rientrato a fare il consigliere di Cassazione. Come immagina che mi sia sentito?»

Esiste anche un effetto flashback. Quando un giudice si candida è inevitabile rileggere le sue sentenze precedenti sotto un’altra luce.

«Naturale. Bisogna mettersi nei panni di un imputato che era stato condannato da quel giudice, e magari qualche sospetto lo aveva avuto, e si trova a dirsi: ci avevo visto giusto. A questo purtroppo non c’è rimedio, non si può impedire il passaggio alla politica. Ma deve essere un viaggio di sola andata».

E cosa ne facciamo dei magistrati che non vengono rieletti?

«Ci sono tanti ruoli amministrativi che un magistrato può ricoprire, funzioni che non hanno nulla a che fare con la giurisdizione».

Centinaia di magistrati fuori ruolo lavorano accanto ai politici. Andrebbe applicato anche a loro il divieto di tornare a fare i giudici?

«Sarebbe preferibile, perché la connotazione politica è esplicita anche per loro. Ma in realtà a venire dismessa dovrebbe essere proprio quella possibilità di andare a fare i capi di gabinetto, i consulenti, i capi degli uffici. Non è accettabile che oggi al ministero della Giustizia lavorino cento magistrati fuori ruolo. Non è più il ministero della Giustizia, sembra il ministero della magistratura».

La Cartabia è chiamata a affrontare un altro nodo, la riforma del Csm. Si sta muovendo con efficacia?

«Lì il problema è spezzare il cordone ombelicale tra le correnti e il Csm. La proposta del ministro a mio modo di vedere non incide a sufficienza su quel legame».

E come si dovrebbe fare?

«Sorteggiando un multiplo di magistrati e facendoli poi votare dal corpo elettorale. È l’unico modo per impedire che al Consiglio superiore approdino solo quelli che hanno costruito la loro carriera in magistratura solo con quell’obiettivo e grazie alla militanza nelle correnti. Poi le correnti gli presentano il conto».

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