La rielezione, il 31 gennaio scorso, di Sergio Mattarella per un secondo mandato di sette anni alla presidenza della Repubblica e la contestuale conferma di Mario Draghi alla presidenza del Consiglio, se hanno prodotto effetti rassicuranti sia all’estero sia tra gli italiani, segnano tuttavia una nuova svolta nella storia politica italiana, i cui sviluppi e conseguenze si vedranno nell’anno o poco più che ci separa dalle elezioni politiche nella primavera 2023.
La rielezione, il 31 gennaio scorso, di Sergio Mattarella per un secondo mandato di sette anni alla presidenza della Repubblica e la contestuale conferma di Mario Draghi alla presidenza del Consiglio, se hanno prodotto effetti rassicuranti sia all’estero sia tra gli italiani, segnano tuttavia una nuova svolta nella storia politica italiana, i cui sviluppi e conseguenze si vedranno nell’anno o poco più che ci separa dalle elezioni politiche nella primavera 2023.
La duplice conferma evidenzia la sterilità politica di partiti e coalizioni, incapaci di partorire qualcosa o qualcuno di nuovo. La saggezza ritrovata all’ultimo momento dai grandi elettori, parlamentari ed esponenti delle regioni, è stata quella di prendere atto di questa sterilità ed evitare forzature su nomi discutibili o di parte che avrebbero provocato conseguenze gravi per la tenuta del Paese e per la sua affidabilità europea ed internazionale. Proprio nel momento in cui l’Italia, grazie all’accoppiata Mattarella-Draghi, aveva recuperato un buon livello di credibilità.
Il tandem Draghi-Mattarella per altro, era di gran lunga il preferito dai parlamentari disubbidienti dalle imposizioni delle segreterie e dai cittadini stessi. Paradossalmente sono stati i criticatissimi ‘franchi tiratori’ – vero sale della democrazia – a rappresentare meglio dei leader dei partiti la prevalente volontà dei cittadini di confermare il presidente uscente.
L’esito del voto di fatto sconfessa la linea populista ed antieuropeista che poco più di tre anni fa aveva portato alla vittoria due partiti, 5Stelle e Lega, che di questi temi avevano fatto il cavallo di battaglia. Il dietrofront (convinto o meno ne avremo presto la controprova) di questi partiti si è materializzato proprio nella scelta dell’accoppiata Mattarella-Draghi. E almeno fino alle prossime elezioni non potrà subire grandi variazioni.
Con la riconferma dei due presidenti uscenti, resta invariata anche la maggioranza di “larghe intese” Pd, Leu, 5Stelle, Forza Italia Lega, a sostegno del governo. E sarà in quella sede che ci saranno le battaglie più dure sulle riforme, dalla giustizia alle pensioni al nuovo fisco, che andranno obbligatoriamente varate se l’Italia vorrà incassare cospicuo pacchetto di miliardi messo a disposizione dall’Unione Europea con l’ormai famigerato Pnrr (Piano nazionale per gli investimenti complementari).
Sul piano più squisitamente politico, due questioni in particolare saranno al centro del confronto serrato e prevedibilmente senza esclusioni di colpi.
La prima è la probabile scomposizione/ricomposizione delle attuali coalizioni, in particolare il centro destra che proprio sull’elezione del presidente della Repubblica si è frantumata. Con Fratelli d’Italia rimasto isolato e alla finestra più che all’opposizione, su linee opposte a quelle degli (ex?) alleati Forza Italia e Lega. La marcia di avvicinamento all’appuntamento elettorale dirà se la coalizione troverà il modo di ricomporsi e di individuare nuovi leader o confermare semplicemente gli attuali, Salvini, Meloni, Berlusconi. Ma il rischio implosione incombe anche sui 5Stelle, con l’aperto dissidio tra Conte e Di Maio per la leadership del movimento. Più tranquilla la posizione del Pd, che con la segreteria Letta ha scelto di rafforzare l’immagine di partito dell’affidabilità e della stabilità. In pieno movimento appare invece la galassia dei partiti di centro, con Renzi, Toti, Calenda, alla ricerca di una qualche aggregazione che permetta di affrontare le prossime elezioni con la garanzia di superare gli sbarramenti e portare un consistente gruppo di eletti nel prossimo parlamento.
La seconda questione destinata ad occupare il dibattito politico è la riforma del sistema elettorale. Da approvare in tempo utile per le elezioni del 2023. Che saranno più competitive che mai dal momento che il numero dei parlamentari da eleggere scenderà dai 945 di oggi a 600.
Il sistema maggioritario degli ultimi anni ha obbligato i partiti a costituirsi in coalizioni che una volta approdate in parlamento, si sono frantumate, favorendo continui cambi di casacca di parlamentari e il formarsi di alleanze di governo che nulla avevano a che fare con l’esito del voto. Un effetto ampliato dall’inserirsi tra le due coalizione dei 5Stelle, diventati primo e determinante partito per numero di eletti. Tanto da poter governare prima con la destra (la Lega) e poi con la sinistra (Pd). Il risultato complessivo è stata quell’ingovernabilità che soltanto l’emergenza, la caratura politica di Mattarella e il prestigio di Draghi hanno consentito di superare. Almeno fino ad oggi.
Ora la volontà prevalente dei partiti sembra quello di tornare ad un sistema proporzionale, come ai tempi della prima repubblica. Una scelta che consentirebbe ad ogni partito di correre per se stesso, senza indicare un candidato premier, per poi cercare dopo il voto una qualche alleanza per formare il governo e scegliere il premier. Il proporzionale avrebbe anche il probabile effetto da un lato di ridare forza ai centristi, dall’altro di tagliare fuori dai giochi le ali estreme, a destra come a sinistra. Ma non è affatto detto che il risultato finale sarebbe una maggiore stabilità politica.
Eppure proprio su questo si gioca una fetta consistente del nostro futuro.
(*) direttore “La Guida”
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