La storia
di Giangiacomo Schiavi15 lug 2022
Il Palazzo di Via Solferino 28 in cui ha sede il Corriere della Sera
Via Solferino 28. Più che un indirizzo un simbolo sul quale issare una bandiera: la bandiera del giornalismo. Non aveva dubbi Luigi Albertini nel 1904, quando portò la redazione del «Corriere» nel palazzo disegnato da Luca Beltrami, l’architetto che aveva da poco ricostruito il Castello Sforzesco. Milano era il polso di un’Italia che da agricola diventava industriale e il Corriere si era dato il compito di raccontarla per indirizzarla verso la modernità. È in quell’edificio liberty (riacquistato da Rcs in seguito a un accordo con Blackstone) , austero ed elegante che nasce la nave ammiraglia dell’informazione, con un direttore che interpreta gli umori della gente cosiddetta «perbene» e diventa l’anima liberale della borghesia, lasciandosi dietro copia dopo copia «Il Secolo» e «La Perseveranza», giornali leader di fine Ottocento condannati a diventare gregari e a finire senza gloria. In pochi mesi il palazzo di via Solferino identifica il Corriere e Milano, quasi come il Duomo, la Scala e la Galleria: gli arredi in radica, i velluti rossi, il tavolone della redazione voluto da Albertini simile a quello del Times di Londra, creano il mito del giornale in tight che giganteggia con il prestigio delle firme, il rispetto maniacale delle forme, l’esattezza degli articoli, le pagine culturali, le nuove linotype e le rotative cilindriche capaci di stampare fino a ottocentomila copie.
Intorno al palazzo l’aria di Milano odora ancora di fieno e stallatico, in strada ci sono i brumisti con il cilindro nero, il Naviglio corre appena dietro, nello slargo del tumbun di via San Marco: ma si respira il primo vento del Nord con le fabbriche, le grandi banche, i magazzini del commercio che si chiamano Bocconi e diventeranno presto La Rinascente (copyright Gabriele D’Annunzio). Dietro il «Corriere» c’è la borghesia del progresso, dell’acciaio e del duralluminio, ci sono i Crespi, Edison e Pirelli, c’è Falck e la Breda, il Politecnico e le associazioni culturali nate sullo sfondo della letteratura graffiante di Tarchetti, Boito e Arrighi, ribelli al tradizionalismo, a Crispi e Giolitti, alle disastrose campagne coloniali e ai cannoni criminali di Bava Beccaris. C’era molto da scrivere nella Milano che stava diventando « la città più città d’Italia» per dirla con Verga, e il Corriere di Albertini questo sapeva fare: il direttore non aveva dimenticato la consegna di Eugenio Torelli Viollier, il fondatore, che nel 1876 aveva licenziato il primo numero dalla Galleria, due stanze in affitto, quattro pagine, 5 centesimi. «Verrebbe a lavorare al Corriere?», gli aveva chiesto nel 1897. E alla risposta affermativa del futuro direttore aveva aggiunto: «Lei sa la differenza tra un piccolo e un grande giornale? Il grande giornale è quello che pubblica anche le notizie che dispiacciono…». Lo spartito è questo in via Solferino 28. Notizie, reportage, cultura, con un direttore interventista che vuole dettare l’agenda, anche alla politica.
Il «Corriere» diventa indispensabile a Milano, decisivo nel dibattito nazionale e quando l’Expo del 1906 ne certifica il primato industriale si avvera la profezia di Gaetano Salvemini: «Quel che oggi pensa Milano, domani lo penserà l’Italia». È passata la storia in via Solferino. Nello scalone di marmo e nei corridoi della direzione le foto documentano 118 anni di giornalismo e di cultura. Da Pirandello a Montale e Ungaretti. Dino Buzzati confessa un timore reverenziale quando gli assegnano il posto al tavolone della sala che porta il nome del mitico Albertini. Indro Montanelli appare e scompare nei suoi servizi da inviato, per diventare poi una pietra angolare dell’edificio. Mario Borsa, direttore della Liberazione, dopo gli anni bui dell’occupazione fascista, riprende la lezione di Albertini alla gente perbene e ricorda ai giornalisti quel che lo spirito dell’Imbonati diceva al Manzoni: «Non ti far mai servo, non far tregua coi vili, il santo vero mai non tradir».
Via Solferino 28: un indirizzo impossibile da cambiare. È un luogo identitario del giornalismo, per Milano e per l’Italia. Chissà che cosa avranno sentito quei muri della famosa stanza Albertini, scrive Corrado Stajano quando la vecchia tipografia con il piombo scompare per far posto ai computer. «Falò delle vanita, grandezze, miserie, ire, meschinità, generosità, nobiltà, suppliche, bassezze, interessi e disinteressi, lacrime, sangue, gioie, dolori, umori, furori..». Un intreccio di sentimenti. Un coagulo di passioni. Il mondo è cambiato in fretta. Alcuni simboli restano.
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, 2022-07-15 20:37:00, L’inaugurazione nel 1904 e il legame con Milano. L’edifico è un progetto di Luca Beltrami e Luigi Repossi, Giangiacomo Schiavi