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Una nuova didattica è veramente possibile? INTERVISTA al Professor Canevaro

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Quali sono le sfide che dobbiamo affrontare e le opportunità da non perdere per realizzare una didattica veramente inclusiva. Ne abbiamo parlato con il Professor Andrea Canevaro, già Professore di Pedagogia Speciale presso l’Università di Bologna e condirettore della rivista “L’integrazione scolastica e sociale” edita dal Centro Studi Erickson.

Professor Canevaro, nel volume “Un’altra didattica è possibile”, che ha curato con il Professor Ianes ed edito da Erickson, lei sottolinea e invita gli insegnati ad essere artigiani capaci di unire il vecchio che rassicura al nuovo che conforta nell’andare avanti. Quanto è importante questo aspetto nella costruzione di una didattica realmente inclusiva.

È necessario tener conto dell’immagine largamente diffusa di una scuola che deve procedere con una logica simultanea. Tutti imparerebbero nello stesso modo, con lo stesso ritmo. Non è così, come può osservare ciascuna persona che abbia a che fare con chi cresce. Facciamo un gioco. Una persona, magari di una certa età, ricorda la sua infanzia in orfanatrofio, che non esiste più (cosa c’è al suo posto?). E poco alla volta la mappa della memoria del paesaggio sociale di quel territorio si comporrà.

Il paesaggio reale e il paesaggio mentale non vanno sempre d’accordo. È paradossale che la logica simultanea sia ritenuta naturale, mentre una didattica laboratoriale, proposta da Un’altra didattica è possibile, è ritenuta una bizzarria di un insegnante stravagante. Un bravo artigiano, aggiustando, entra nelle case, costruisce e rinforza reti sociali, produce innovazione. Sennet, che ha approfondito queste tematiche, mette il ruolo dell’artigiano, e il bricolage che gli è consueto, al centro dei processi di innovazione. Intreccio di vecchio, che rassicura, e nuovo, che ci conforta nell’andare avanti.

Qualcosa di buono nasce anche dai momenti di crisi. Forse, come lei afferma in un passaggio del libro, è il momento di lasciarsi alle spalle il modello lineare. Altri punti su cui basare questo cambiamento è la valorizzazione della diversità in contrapposizione alla standardizzazione. Come si possono realizzare questi cambiamenti?

Le televisioni avrebbero in archivio esempi di superamento del modello lineare, sarebbe bello poterli riproporre. Un’altra didattica è possibile! attingendo dalle teche RAI penso alle trasmissioni che vanno da Alberto Manzi, Non è mai troppo tardi, a L’albero azzurro. Esempi di insegnamento come intermediazione con oggetti, a distanza, con telespettatori attivi. Operosità. Riconoscere un’operosità vuol dire comunicare questo messaggio: tu non sei inutile. Questo può favorire il superamento del dare segnali di presenza a questo mondo essendo dannosi. Non sei inutile, ovvero: sei utile.

Lei afferma che educare è più impegnativo che idealizzare. L’appartenenza alla realtà nella pluralità è un divenire continuo. Categorizzare, invece, in identità bloccate ci porta ad essere ostaggi di categorie stereotipate. Ci spiega meglio questo passaggio?

Il libro aiuta, richiamando il termine empowerment. È interessante perché segnala qualcosa che sta accadendo con aspetti nello stesso tempo positivi e negativi. E’ positivo il fatto che si diffonda un modello di conoscenza evolutivo. Il singolo essere umano emerge da una situazione che coinvolge un intero sistema (stile di vita, cultura di un certo periodo della storia in cui si è dato vivere). La logica dell’ empowerment vuole che ogni competenza venga integrata nel progetto di quel singolo essere umano. La formazione dovrebbe seguire questa logica, che decisamente non è quella della standardizzazione.

Un ruolo strategico nella comunità educante è ricoperto dai dirigenti scolastici. Lei afferma che per loro è importante ricordare che una scuola produce l’educazione e la formazione di tutti. Forse questo momento di crisi ci può far riflettere sul ripensare il ruolo dei dirigenti scolastici, oggi visti più come manager, aumentandone la visione pedagogica?

Per cercare tracce, occorre vedere negli altri quel valore che non abbiamo, e, delicatamente ma decisamente, intrecciare i nostri rispettivi valori. Intrecciare tracce. Chi dirige dovrebbe avere una delicata curiosità da cercatore di tracce. Oltre ai compiti dettati da un mansionario, gli altri che tracce stanno lasciando? Io, dirigente, che traccia lascio? Solo un pignolo controllo in una catena di comando che parte da lontano? Chi cerca tracce dovrebbe avere un carattere forte e molta delicatezza, molta attenzione. Non deve guastare le tracce, muoversi con attenzione, controllarsi. Può scoprire l’importanza dei percorsi che sfuggono, essendo considerati intervalli, quasi da cancellare. Invece … . è in quel tratto che può scoprire una traccia forse preziosa. Tutto può cominciare fra le pareti domestiche. Chi dirige lo fa con gioia. Allenando l’autorevolezza. Mettendo da parte l’autorità. Vedendo le tracce che portano a un progetto. Può essere una parola. La parola non avrebbe senso se non ci fossero dei luoghi da cui partire e dove arrivare. La distinzione fra abitazione e luogo di lavoro, luogo di commercio, luogo per giudicare, ecc. permette a questa parola di esistere e avere senso. L’istituzione totale non ha accompagnamenti, e neanche l’istituzione totale virtuale e della TV. Non c’è accompagnamento da un canale televisivo all’altro. Il post-moderno, e i non-luoghi, sono la crisi dell’accompagnamento. Fra un’”isola di fiducia e di sintonia” (isola auto-referenziale) e l’altra c’è un mare di sfiducia. Si può accompagnare navigando quel mare? Chi accompagna chi? Fra compagni di sventura, chi accompagna e chi è accompagnato? Nelle risposte a queste domande possiamo trovare chi dirige.

Un’ultima domanda, le relazioni sociali sono un aspetto fondamentale del fare scuola. Questo periodo di pandemia lo ha reso ancora più evidente. Per affrontare le varie relazioni ognuno di noi ha strumenti differenti, ma si corre il rischio di non avere gli strumenti adeguati per superare le sfide che si dovranno affrontare, in particolare quelle scolastiche. Come possiamo aiutare i nostri ragazzi a costruire questi strumenti e qual è il ruolo degli adulti, siano essi genitori o docenti?

Proviamo a dare un senso alla fatica. Un ragazzo con sindrome di Down ha risposto a suo fratello che gli chiedeva proprio cosa vuol dire sindrome di Down: “è che sono intelligente, ma è fatica stare al mondo”.

Riflettendo tante volte su questa risposta abbiamo trovato che possiamo avere la tentazione di impegnarci soprattutto o esclusivamente a togliere la fatica di quel ragazzo (che all’epoca aveva 15 anni). Ma se “stare al mondo” fosse legato strettamente alla fatica? Se così fosse, rischieremmo di rendere più difficile – pur con le migliori intenzioni – lo stare al mondo di quel ragazzo.

E’ più giusto impegnarci a trovare insieme il senso per quella fatica. E, quindi, pensare il mondo stesso come un laboratorio.

Vi è reciprocità fra laboratorio e fatica. Il laboratorio può dare senso alla fatica; e la fatica può trasformare un luogo, una situazione, un laboratorio. Ma questa reciprocità non può essere vissuta senza sporcarsi le mani. Non si può trasformare gli altri in “cavie da laboratorio”. E’ necessario sporcarsi nel senso di coinvolgersi, accettando i rischi di sbagliare e di dover rimediare; ma nello stesso tempo prendendo, però, tutte le cautele per non commettere errori, e capire quali errori sono fattibili e quali non fattibili perché catastrofici. Le nostre energie si allenano a mobilitarsi più completamente per evitare errori catastrofici; sono vigili ma senza spreco per gli errori possibili.

Un’altra didattica è possibile va in questa direzione.

, 2022-03-09 06:29:00, Quali sono le sfide che dobbiamo affrontare e le opportunità da non perdere per realizzare una didattica veramente inclusiva. Ne abbiamo parlato con il Professor Andrea Canevaro, già Professore di Pedagogia Speciale presso l’Università di Bologna e condirettore della rivista “L’integrazione scolastica e sociale” edita dal Centro Studi Erickson.
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