Una splendida Cate e un «Bardo» pieno di  ossessioni

Una splendida Cate e un «Bardo» pieno di ossessioni

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Il tema dell’artista è al centro dei film di Todd Field e Alejandro González Iñárritu. Incanta la diva australiana nel ruolo di una direttrice d’orchestra capace di tutto per consolidare il suo successo

Il tema dell’artista e delle sue contraddizioni lega i due film in concorso ieri, giovedì 1 settembre, alla Mostra, «Tár» di Todd Field e «BARDO, falsa crónica de una cuentas verdades» (BARDO, cronaca fittizia di una manciata di verità) di Alejandro González Iñárritu. Illuminato dalla prova eccezionale di Cate Blanchett, il film di Field scava nelle ambizioni e soprattutto nella determinazione della direttrice Lydia Tár, arrivata alla direzione della più importante orchestra tedesca (i Berliner?). Per consolidare il proprio successo pare capace di tutto: persino il suo legame con la prima violinista (Nina Hoss) sembra dettato non solo dall’amore ma anche dall’interesse (la donna siede nel consiglio d’amministrazione dell’orchestra) così come il legame con la sua assistente (Noémie Merlant) fa capire che tra loro non c’è solo un rapporto di lavoro. Un castello di carte che crolla quando Lydia pensa di poter fare a meno di entrambe: prima sui social e poi di fronte alla Legge (una sua ex allieva si è suicidata per i suoi dietrofront) i comportamenti della Tár vengono smascherati rovinandone reputazione e carriera. Questa seconda parte, quando verità e falsità si intrecciano in una morsa soffocante, è decisamente meno riuscita della prima dove si restava affascinati da una donna che non aveva un dubbio né un’esitazione (la lezione alla Juilliard contro la cancel culture è un piccolo gioiello) e si rimpiange la lucidità e la complessità dei dialoghi con cui abbiamo imparato a conoscere Lydia. Resta comunque la grandissima prova della Blanchett che può far accettare l’eccessiva durata del film.

La lunghezza spropositata (tre ore) è invece solo uno dei difetti del film di Iñárritu, specie di felliniano «8½» su un giornalista messicano (Daniel Giménez Cacho) che ha raggiunto il successo negli Stati Uniti e qui sta per essere premiato. Ma i sensi di colpa verso le sue origini e il dubbio di essersi venduto ai gringos e i loro dollari innescano un tormentato auto da fé dove si mescolano angosce esistenziali, dubbi politici e paranoie personali. Ma dove Fellini si riscattava con la grazia, Iñárritu cade con la grevità delle sue interminabili ossessioni (il mucchio di indios morti con in cima un Cortés redivivo è esemplare del suo cattivo gusto). E non è certo così che il regista messicano potrà «assolversi» dal fatto di lavorare da anni a Hollywood.

2 settembre 2022 (modifica il 2 settembre 2022 | 10:21)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

, 2022-09-02 13:43:00,

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Il tema dell’artista è al centro dei film di Todd Field e Alejandro González Iñárritu. Incanta la diva australiana nel ruolo di una direttrice d’orchestra capace di tutto per consolidare il suo successo

Il tema dell’artista e delle sue contraddizioni lega i due film in concorso ieri, giovedì 1 settembre, alla Mostra, «Tár» di Todd Field e «BARDO, falsa crónica de una cuentas verdades» (BARDO, cronaca fittizia di una manciata di verità) di Alejandro González Iñárritu. Illuminato dalla prova eccezionale di Cate Blanchett, il film di Field scava nelle ambizioni e soprattutto nella determinazione della direttrice Lydia Tár, arrivata alla direzione della più importante orchestra tedesca (i Berliner?). Per consolidare il proprio successo pare capace di tutto: persino il suo legame con la prima violinista (Nina Hoss) sembra dettato non solo dall’amore ma anche dall’interesse (la donna siede nel consiglio d’amministrazione dell’orchestra) così come il legame con la sua assistente (Noémie Merlant) fa capire che tra loro non c’è solo un rapporto di lavoro. Un castello di carte che crolla quando Lydia pensa di poter fare a meno di entrambe: prima sui social e poi di fronte alla Legge (una sua ex allieva si è suicidata per i suoi dietrofront) i comportamenti della Tár vengono smascherati rovinandone reputazione e carriera. Questa seconda parte, quando verità e falsità si intrecciano in una morsa soffocante, è decisamente meno riuscita della prima dove si restava affascinati da una donna che non aveva un dubbio né un’esitazione (la lezione alla Juilliard contro la cancel culture è un piccolo gioiello) e si rimpiange la lucidità e la complessità dei dialoghi con cui abbiamo imparato a conoscere Lydia. Resta comunque la grandissima prova della Blanchett che può far accettare l’eccessiva durata del film.

La lunghezza spropositata (tre ore) è invece solo uno dei difetti del film di Iñárritu, specie di felliniano «8½» su un giornalista messicano (Daniel Giménez Cacho) che ha raggiunto il successo negli Stati Uniti e qui sta per essere premiato. Ma i sensi di colpa verso le sue origini e il dubbio di essersi venduto ai gringos e i loro dollari innescano un tormentato auto da fé dove si mescolano angosce esistenziali, dubbi politici e paranoie personali. Ma dove Fellini si riscattava con la grazia, Iñárritu cade con la grevità delle sue interminabili ossessioni (il mucchio di indios morti con in cima un Cortés redivivo è esemplare del suo cattivo gusto). E non è certo così che il regista messicano potrà «assolversi» dal fatto di lavorare da anni a Hollywood.

2 settembre 2022 (modifica il 2 settembre 2022 | 10:21)

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