di Claudio Del Frate
E’ il primo Paese ad andare alle urne dopo lo scoppio della guerra ed è il più filo-putiniano. Il presidente tenta il quarto mandato gli avversari secondo i sondaggi a pochi punti percentuali
Domenica in Ungheria 9 milioni di elettori andranno al voto il rinnovo del Parlamento. Appuntamento ritenuto importante per un duplice motivo: da un lato Viktor Orbán e la sua coalizione sovranista tentato di acciuffare il quarto mandato di governo. Dall’altro l’Ungheria è il primo Paese europeo a recarsi alle urne dall’inizio della guerra ucraina (la prossima settimana toccherà alla Francia). Si tratta dunque di un test per l’intera Ue che si svolge per giunta nella nazione che ha avuto l’atteggiamento più filo-putiniano dell’intero continente.
Il quadro di partenza, rispetto alle precedenti tornate elettorali che hanno visto la facile affermazione di Orbán, appare stavolta mutato. Il presidente uscente guida una coalizione di cui «magna pars» è il partito di destra Fidesz. A differenza che in passato i suoi oppositori sono riusciti a fare fronte comune con un cartello in realtà molto eterogeneo (è composto das sei partiti) e guidato da Peter Marki-Zay, sindaco di un piccolo centro del sud ungherese. I sondaggi vedono in lieve vantaggio Orbán: il sito politico.eu gli assegna il 50% dei consensi (lo stesso con cui uscì dal voto del 2018) ma con l’opposizione unita che lo tallona al 44. Più stretto il margine rilevato dall’istituto ungherese Zovacs Research che vede i due schieramenti attestati su un 41 a 39. Molto dipenderà dall’affluenza al voto dal risultato dei partiti minori e dal meccanismo elettorale che in Ungheria – paese suddiviso in tanti piccoli collegi – assegna il 75% dei seggi con il maggioritario secco.
Il leader di Budapest affronta questo nuovo esame senza sconfessare nulla della sua politica nazionalista, anti immigranti e punitiva per le minoranze. Non a caso il 15 marzo scorso ha ricevuto l’endorsement via Twitter dell’ex presidente Usa Donald Trump. In più, il voto per il Parlamento sarà affiancato da un referendum sulla contestata legge Lgbt (divieto assoluto di parlare di orientamento sessuale a scuola) che ha messo Budapest in rotta di collisione con Bruxelles.
Ma stavolta, in più c’è il tema della guerra tra Russia e Ucraina, cioè alle porte della frontiera magiara. Orbán tra tutti i leader europei è stato quello che si è più di tutti smarcato dalla linea concordata tra i 27: ha detto no al passaggio sul suo territorio di armi destinate a Kiev, ha detto no all’estensione delle sanzioni al gas. Non solo: il governo ha affidato alla russa Rusatom la costruzione di due nuovi reattori nucleari. Insomma, per Budapest allontana l’ipotesi di tagliare i ponti con Mosca. «Non è la nostra guerra, non abbiamo nulla da guadagnarci» ha tagliato corto Orbán nei giorni scorsi. La sua linea ha però subito un duro colpo da parte di Volodymyr Zelensky. Il 24 marzo scorso il presidente ucraino, parlando in videoconferenza con tutti i leader Ue ha ringraziato a uno a uno 26 suoi interlocutori. Arrivato al ventisettesimo – Viktor Orbán, appunto – ha cambiato tono: «Decidi da che parte stare, non c’è più tempo per esitare». Anche per questo il voto di domenica sarà un banco di prova per l’intera politica Ue verso il Cremlino.
1 aprile 2022 (modifica il 2 aprile 2022 | 00:04)
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