Università e ranking, lo scandalo della Columbia: ha fornito dati «ingannevoli». Ora è scesa dal secondo al 18esimo posto

Università e ranking, lo scandalo della Columbia: ha fornito dati «ingannevoli». Ora è scesa dal secondo al 18esimo posto

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di Orsola Riva

Il New York Times porta alla luce il caso del prestigioso ateneo newyorkese che ha costretto Us News a rifare la classifica, declassandolo. L’ammissione dei responsabili

La notizia non è tanto che i ranking universitari siano facilmente scalabili – questo lo avevamo capito da tempo – ma che anche le teste di serie non disdegnino il ricorso a operazioni di «maquillage» a dir poco disinvolte pur di piazzarsi in cima a queste classifiche. Che, nate con l’intento di orientare genitori e figli nella scelta di quello che soprattutto in America è l’investimento economico più importante di una famiglia – si sono trasformate in una gara senza esclusione di colpi, da cui le istituzioni accademiche escono sempre più acciaccate. Questa volta a «truccare» le carte è stata niente meno che la Columbia University, colpevole – per sua stessa ammissione – di avere inserito dei dati imprecisi nella classifica pubblicata ogni anno da U.S. News, una delle più consultate insieme a quella del Wall Street Journal, di Forbes e del Washington Monthly. Come ha raccontato il New York Times, lo scandalo era esploso a febbraio quando Michael Taddeus, un professore di matematica di quella che è e resta una delle più antiche e autorevoli università dell’Ivy League americana, ha denunciato sul suo blog che le statistiche fornite dalla sua università erano «inaccurate, discutibili e ingannevoli». Dopo mesi di polemiche, lunedì 12 settembre U.S News ha pubblicato una nuova classifica in cui in base ai nuovi dati forniti dalla stessa Columbia, il piazzamento dell’università newyorchese – seconda solo a Harvard per numero di premi Nobel (più di cento!) – è precipitato dalla seconda alla 18esima posizione. In testa come già l’anno scorso resta Princeton, seguita dall’Mit di Boston e da Harvard, Yale e Stanford arrivate terze a parimerito. Possibile? Certo perché nel mix di criteri che determinano il punteggio finale, oltre alla reputazione generale, alla selettività in entrata e alla capacità di rimborsare i debiti contratti per laurearsi da parte di chi ne è già uscito (indicatore che serve a misurare la spendibilità del titolo stesso sul mercato), c’è anche – come in quasi tutti i ranking internazionali – il rapporto fra studenti e docenti, che era stato pesantemente manipolato l’anno scorso.

I criteri

Le aule poco affollate sono universalmente considerate un indicatore molto attendibile della qualità dell’insegnamento. E sono anche una delle ragioni principali – insieme alla scarsa attrattività per docenti e studenti internazionali – per cui nelle più importanti classifiche internazionali nessuna nostra università riesce a piazzarsi nemmeno fra le prime cento al mondo. L’unica classifica in cui gli atenei italiani riescono a raggiungere posizioni di vertice è quella redatta ogni anno dal QS in base ai singoli corsi, in cui per esempio la Sapienza da anni ormai occupa la prima posizione al mondo in Studi classici e il Politecnico di Milano si piazza nella top ten mondiale sia in Architettura e Design che in diversi corsi di Ingegneria (dove pure la competizione è fortissima). Ma nemmeno il QS ranking è immune da critiche, soprattutto per il peso enorme dato agli aspetti reputazionali (cioè ai pareri espressi da altri docenti e anche dai datori di lavoro) a scapito di dati più obiettivi e per il presunto conflitto di interessi rappresentato dal fatto che oltre a stilare la classifica delle università, offre anche un servizio di consulenza pensato per aiutarle a migliorare il proprio piazzamento.

Il business

In un mondo dove l’istruzione universitaria è diventata un business capace di far tremare l’economia di un Paese (vedi la bolla dei debiti universitari negli Usa e in Uk), i ranking sono diventati un’arma potentissima capace di spostare miliardi di euro, dollari o sterline. Di piccoli e grandi incidenti nelle classifiche universitarie ce ne sono stati tanti in questi anni: dal caso di un politecnico indiano di non primissima fila (la Vel Tech University di Chennai) che era riuscito a scalare un altro ranking- quello di Times Higher Education – drogando l’impatto delle ricerche di un singolo docente che pubblicava i suoi lavori su una rivista di cui era anche il direttore, alle polemiche nostrane sull’Anvur, l’agenzia governativa incaricata di valutare la qualità della ricerca degli atenei italiani da cui dipende una fetta importante dell’assegnazione dei fondi ai nostri atenei. Nella penultima edizione della cosiddetta VQR a tenere banco era stato il caso dell’università Kore di Enna il cui dipartimento di fisica batteva anche la Normale di Pisa. Mentre nell’ultima edizione – in cui i discutibili indici bibliometrici delle tornate precedenti sono stati integrati da un sistema di valutazione fra pari che solleva anch’esso parecchi dubbi – ha suscitato più di qualche sorpresa il piazzamento della altrimenti poco nota università sportiva Roma Foro italico al secondo posto fra i piccoli atenei.

13 settembre 2022 (modifica il 13 settembre 2022 | 15:05)

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, 2022-09-16 04:54:00, Il New York Times porta alla luce il caso del prestigioso ateneo newyorkese che ha costretto Us News a rifare la classifica, declassandolo. L’ammissione dei responsabili, Orsola Riva

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