Grandi manovre in atto in vista del G20 di metà novembre in Indonesia.
Ai margini del summit di Bali potrebbe tenersi il primo summit bilaterale tra Joe Biden e Xi Jinping.
Sarebbe il primo in assoluto, di persona, da quando Biden è presidente degli Stati Uniti: la sua elezione avvenne durante la pandemia che aveva limitato i viaggi dei leader e gli incontri dal vivo, e queste limitazioni per quanto riguarda Xi Jinping sono durate molto più a lungo che per i leader occidentali. Di fatto i due si sono sentiti solo al telefono. Anche se ci furono dei precedenti incontri in persona quando Biden era il vice di Barack Obama.
I rapporti tra Cina e Usa, peggio che nel dopo-Tienanmen
Nel frattempo i rapporti bilaterali sono ai minimi storici, per lo meno dall’epoca in cui le due superpotenze ristabilirono le relazioni diplomatiche (fine anni Settanta). Forse neppure il massacro di Piazza Tienanmen aveva creato un simile gelo tra Pechino e Washington: all’epoca, nel 1989, alla Casa Bianca c’era George Bush padre, che da ex ambasciatore in Cina voleva ripristinare al più presto un rapporto positivo con il leader cinese di allora, Deng Xiaoping. La strage di Tienanmen fu seguita da sanzioni occidentali, ma limitate alle forniture militari. E di lì a poco sarebbe iniziata una sorta di «età dell’oro» nelle relazioni economiche tra i due paesi. Oggi siamo ben lontani.
Gli ultimi scontri: Taiwan, embargo hi tech
In una escalation della tensione che dura almeno dai dazi di Donald Trump, ma i cui segnali premonitori erano ben visibili nella fase finale della presidenza Obama, gli episodi salienti sono degli ultimi mesi. Xi ha fatto pressione su Biden perché impedisse la visita di Nancy Pelosi a Taiwan quest’estate, poi quando la visita è avvenuta ha orchestrato «manovre militari» simili ad una prova generale d’invasione dell’isola.
In quanto a Biden, sta potenziando molto i divieti di forniture di tecnologie americane alla Cina. Il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha nuovamente condannato questo embargo come un tentativo di «contenere e schiacciare l’ascesa della Cina».
Le ragioni di un dialogo
Un summit bilaterale dunque si svolgerebbe in un clima pessimo.
Eppure i due hanno bisogno di parlarsi. Sicuramente da parte americana c’è la speranza che un dialogo serva a delimitare le aree di competizione e di conflitto, evitando involontari incidenti di percorso in una relazione già abbastanza turbolenta.
La Casa Bianca non ha perso del tutto la speranza che Xi possa esercitare un ruolo moderatore su Putin. In particolare sull’uso dell’arma nucleare: gli americani sono convinti che Pechino non ha alcun interesse a veder creare un precedente, perché «normalizzare» l’uso delle armi nucleari in Ucraina potrebbe scatenare una corsa all’arsenale atomico da parte di Giappone e Corea del Sud. L’appello di Xi sul nucleare in occasione della visita del cancelliere tedesco sembra confortare le speranze di Washington. Xi resterà un alleato fedele di Putin, però potrebbe mettergli dei «paletti».
Il decoupling delle due maggiori economie mondiali
A che punto è invece il divorzio Usa-Cina sul versante economico? Consiglio di guardare un ampio grafico pubblicato ieri dal Wall Street Journal, con una serie di indicatori sullo stato di salute della globalizzazione. Si tratta di grafici storici, il cui punto di partenza si situa è l’anno 1990. Un esempio: il peso del commercio mondiale in proporzione al Pil di tutti i paesi, nel 1990 era del 37%, poi ha cominciato a salire inesorabilmente fino a sfiorare il 60% nel 2007, oggi è ridisceso al 52%. Questo è un indicatore dell’interdipendenza fra nazioni, ci dice quanta parte della nostra ricchezza è legata alle economie degli altri.
Dunque dalla crisi del 2008 è in atto un ridimensionamento della globalizzazione, però finora questo fenomeno è molto parziale. Può darsi che il vero divorzio stia cominciando solo ora.
Altri indicatori interessanti, che contraddicono la cultura dell’Apocalisse dilagante nel nostro mondo: la percentuale di poveri sulla terra è scesa dal 38% nel 1990 all’8,4% nel 2019. Un progresso spettacolare, senza precedenti nella storia umana, di cui non c’è traccia nel piagnisteo pauperistico che sentiamo tutti i giorni.
Il contraltare è in questo dato: nel 1990 gli operai erano il 16% dell’occupazione Usa, oggi la loro percentuale si è dimezzata. La globalizzazione ha ridotto moltissimo la miseria in Cina e in parte anche in India, ma ha distrutto posti di lavoro operai (stabili e ben pagati) in America.
Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta nella newsletter Global, firmata da Federico Rampini. Per riceverla occorre iscriversi qui
5 novembre 2022, 07:09 – modifica il 5 novembre 2022 | 07:10
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, 2022-11-05 06:31:00, L’incontro di persona a Bali sarebbe il primo tra i due, da quando sono presidenti, Federico Rampini