di Alessio Ribaudo
Messina, il fratello della 17enne uccisa nel 1997 da un automobilista che viaggiava a 110 all’ora. «Disse che gli avevano rubato l’auto, poi cambiò versione. La mia famiglia ha trasformato il dolore in impegno»
«Sembrava una serata come tante, eravamo felici, sia perché la mattina dopo sarebbe iniziata l’estate sia perché mia sorella Valeria, liceale di 17 anni, aveva ricevuto una pagella strabiliante. Per festeggiare le chiesi di uscire con me e il mio miglior amico, che ci passò a prendere in auto intorno alle 21. Fra chiacchiere e risate cenammo in un ristorante che amavamo, poi andammo a fare quattro passi lungo la Passeggiata a Mare di Messina». Niente faceva presagire che la vita di Valeria Mastrojeni sarebbe finita di lì a poco e quella di suo fratello sarebbe cambiata per sempre.
Marcello Mastrojeni, cosa accadde in quel tremendo 20 giugno 1997?
«Decidemmo di rincasare intorno alle 23 e il mio amico si fermò davanti casa. Io ero seduto davanti, aprii lo sportello per far scendere Valeria. Poi non ricordo più nulla se non di essermi risvegliato in un letto d’ospedale».
Come scoprì di Valeria?
«Sentii dei carabinieri raccontare di una 17enne morta dopo essere stata travolta da un’auto. Capii che la mia amata Valeria non c’era più. Fu l’inizio di un calvario».
La morte di sua sorella sconvolse Messina.
«Sì. Frequentava il liceo Socio-psicopedagico “Don Bosco”, era una figlia modello, una sorella affettuosa e una studentessa brillante. Ancora non sapeva cosa avrebbe voluto fare nella vita ma forse aveva scelto quel tipo di liceo perché nostra madre era una docente. Del resto, a 17 anni aveva tutta la vita davanti».
Cosa emerse a processo?
«Una perizia stabilì che un’auto sportiva ci travolse a oltre 110 km/h in una stradina del centro. Valeria fu schiacciata contro il muro mentre io fui colpito dai detriti. Una studentessa testimoniò di aver visto un uomo scendere dall’auto e le chiese di chiamare l’ambulanza. Alla fine fu condannato il proprietario del mezzo che prima raccontò di non essere alla guida perché l’auto gli era stata rubata. Poi si incolpò e fu condannato a tre anni per omicidio colposo e simulazione di reato. Una vicenda giudiziaria intricata di cui non siamo convinti. Di certo, non eravamo pronti».
Si può essere pronti ad affrontare un dolore simile?
«No, perché le tragedie capitano all’improvviso e ti trovi catapultato nelle aule di giustizia, in condizioni psicofisiche disastrose. Allora provi a rivolgerti, a seconda delle possibilità economiche, al miglior avvocato. Vorresti giustizia immediata ma entri in un vortice a cui non sei abituato e ti poni domande sul sistema giustizia».
Come si riannoda la vita dopo una tragedia simile?
«Niente è come prima. Si prova a sopravvivere. Avevo 19 anni e mi sono buttato nello studio. Mi sono laureato in Giurisprudenza sostenendo una tesi proprio sul reato di omicidio colposo e, oggi, sono direttore provinciale dell’Inps. Da subito con i miei genitori abbiamo dato tutto noi stessi per non far dimenticare Valeria e per elevare il suo caso a una dimensione sociale. Fummo fra i fondatori di un comitato che, poi, si trasformò nell’Associazione italiana familiari e vittime della strada che, oggi, è presieduta da mamma Giuseppa».
L’impegno delle associazioni ha portato a qualcosa?
«Abbiamo creato dialettica e dimensione collettiva perché solo se si legano istituzioni e società civile si possono prevenire le stragi stradali che non sono dovute a fatalità ma a trasgressione di norme e distrazione. Il nostro impegno è servito e serve ad aiutare molti nel far emergere casi singoli. Agli stessi poi chiediamo, ottenuta più o meno giustizia, di fare testimonianza raccontando a tutti la loro tragedia. A furia di insistere è stata introdotta la patente a punti, i controlli in strada frequenti con gli etilometri ed è nato il reato di omicidio stradale. La battaglia continua sinché avremo forze».
Lei ha due figlie cosa racconterà delle sue battaglie per ricordare sua sorella?
«La più grande si chiama Valeria e a cinque anni inizia a capire e mi pone domande. Ho iniziato a raccontarle del sorriso di sua zia e dell’amore che sapeva trasmettere a tutti. Non a caso Messina non l’ha dimenticata e dove è stata uccisa è stata posata un’installazione che la ricorda. È molto toccante perché simboleggia come dal suo sacrificio possa nascere la speranza».
25 ottobre 2022 (modifica il 25 ottobre 2022 | 22:44)
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, 2022-10-25 20:55:00, Messina, il fratello della 17enne uccisa nel 1997 da un automobilista che viaggiava a 110 all’ora. «Disse che gli avevano rubato l’auto, poi cambiò versione. La mia famiglia ha trasformato il dolore in impegno», Alessio Ribaudo