La scuola italiana quanto fa bene ai nostri alunni? Da questa domanda è partito l’intervento a ExpoTraining 2023 di Maria Francesca Cellai, Componente del Consiglio di Amministrazione Indire e dirigente scolastica dell’Istituto professionale alberghiero Buontalenti di Firenze. In collaborazione con vari atenei, negli anni si è occupata di qualità della formazione, aggiornamento dei docenti, educazione degli adulti, formazione in azienda, didattica inclusiva e sicurezza sui luoghi di lavoro. Dal 2017 è componente dei Nuclei di Valutazione per Dirigenti Scolastici per l’USR Toscana. “Se fatta male, la scuola fa un danno morale ai ragazzi che non possiamo permetterci”, ci dice. Abbiamo voluto approfondire.
Sempre più spesso sentiamo storie di ragazzi stressati, sotto pressione, che quando arrivano all’università non ce la fanno e si chiudono in bugie che difficilmente riescono a sostenere. Lei nel suo intervento è partita da una domanda, “quanto la nostra scuola fa bene ai nostri alunni?”. Ecco, io questa domanda ora la giro a lei: la scuola di oggi quanto fa bene ai nostri ragazzi?
“Se fatta bene, la scuola fa bene. Se fatta male, fa un danno ai nostri ragazzi perché li demotiva e questo li porta ad abbandonare, prima con la testa, poi con il corpo, il banco della scuola. Lo studio è invece il pre-lavoro, forma alla vita, rende più resiliente la persona, le permette di affrontare le crisi in maniera più responsabile e garantisce un tasso occupazionale più alto. La scuola è quindi responsabile della dispersione e anche del cattivo o buon andamento lavorativo futuro dei nostri giovani. Deve essere fatta bene, perché se fatta bene fa molto bene, ma se fatta male, fa molto male, fa un danno anche morale ai nostri alunni e non ce lo possiamo permettere. La ricerca ci dice di rispettare al massimo il periodo di studi che deve essere accompagnato e orientato affinché gli alunni non si disperdano a scuola, e nemmeno nella vita”.
Parlando di benessere a scuola mi viene in mente tutto il discorso sulla valutazione sul quale si dibatte da sempre. Spesso sentiamo dire che i ragazzi sono stressati dai voti. Vorrei entrare con lei in questo dibattito: cosa ne pensa, meglio i giudizi o i voti numerici?
“Dovrei rifletterci. Credo che a fronte di uno studio debba esserci anche una valutazione che possa esprimersi con un voto che può identificarsi anche con un numero. L’importante è che poi non sia la persona a identificarsi con quel voto. La scuola del voto, del libro di testo, degli spazi obsoleti, va superata. Tutta la scuola tradizionale va superata per andare verso una didattica innovativa. Valutare il ragazzo serve a farlo misurare, ma dipende da come si fa questa valutazione. Il voto deve essere accompagnato sempre da una spiegazione per aiutare lo studente a capire. Quando il voto è frustrante dobbiamo dire che la frustrazione serve per crescere. Il voto è una sfida, ma non si deve studiare per prendere un voto. Deve essere una valutazione vissuta senza angoscia – ecco perché la scuola dico che deve essere fatta bene! -. L‘insegnante deve saper accompagnare in questo processo di valutazione e autovalutazione del ragazzo. Io non sono contraria al voto, ma deve essere accompagnato da una valutazione non sulla persona, ma sulla prestazione svolta dalla persona e che può essere sempre migliorabile”.
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