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Si registrano sempre più spesso episodi di violenza tra i ragazzi, anche in ambito scolastico. Ma quali sono le cause che hanno portato a questa situazione? Ne abbiamo parlato con il Professor Massimo Recalcati, psicanalista, saggista e professore Universitario.
Professor Recalcati, abbiamo superato la pandemia e tutte le sue crisi, ora dobbiamo fare i conti con tutto quel carico emotivo, spesso negativo, che quel periodo ha rappresentato. In particolare nei più giovani sembra che la pandemia abbia provocato un aumento dell’aggressività, pensiamo agli incontri programmati online per poi fare delle risse, oppure alle aggressioni a docenti e compagni di scuola. Ci aiuta a capire cosa sta succedendo?
Esisteva già nel mondo giovanile una tendenza psicopatologica preoccupante prima dell’apparizione del Covid. Mi riferisco alla tendenza a ritirarsi dalla vita, a chiudersi, a vivere il legame sociale come fonte di perturbazione e di angosce. Gli psichiatri definiscono questi comportamenti come fobie sociali. La pandemia ha per un verso esasperato questa tendenza all’isolamento, all’introversione, al confinamento. Ma, al tempo stesso, come Lei ci ricorda, questa spinta asociale ha anche assunto le forme più hard della violenza, dell’aggressività, della spinta apertamente auto ed eterodistruttiva. Perché? Perché l’esigenza della performance ad ogni costo, il mito del successo individuale, il culto del profitto come nuovi imperativi immorali costringono chi non tiene il passo a reagire o con il ritiro o con la violenza. Aggiunga, non secondariamente, che le vecchie generazioni hanno lasciato alle nuove un mondo sfiancato, ecologicamente a rischio di vita, assenza di prospettive e di lavoro, una diseguaglianza che anziché ridursi cresce incessantemente.
Quando si verifica un atto di violenza spesso siamo impreparati su come agire e quali provvedimenti adottare. Le soluzioni ipotizzate spesso sono quelle legate alla punizione e all’umiliazione pubblica del soggetto che ha commesso l’atto. Lei quali azioni ci suggerisce di adottare?
Il riferimento del Ministro all’umiliazione come strumento pedagogico si commenta da solo. Non è certo che si possa estinguere la violenza nella scuola con il richiamo all’ordine, all’obbedienza e alla disciplina. Indicherei invece due vie. Da una parte il compito della scuola è quello di provare a tradurre la violenza in un messaggio, in una forma disperata di appello, di invocazione. Accade, infatti, molto frequentemente che la violenza sia un segnale di disagio che esige di essere ascoltato. In secondo luogo si deve fare esistere il senso dell’impossibile che è il senso più proprio della Legge: non si può fare tutto quello che si vuole. La trasmissione del senso della Legge sembra però oggi travolta dalla retorica sulle regole. Ma le regole sono costrette a moltiplicarsi proprio perché abbiamo difficoltà a trasmettere alle nuove generazioni il senso della Legge. La differenza è che le regole restano solo degli impedimenti esterni, mentre il senso della Legge si inscrive nel cuore dell’umano. A questa inscrizione dovrebbe mirare ogni discorso che vuole essere educativo.
Nell’ultimo anno è aumentata l’attenzione verso le competenze non cognitive e dell’importanza del loro insegnamento a scuola. Può questa essere una strada per aiutare i nostri ragazzi a crescere meglio in società?
La scuola deve avere cura della relazione, della sua importanza in ogni processo di formazione. La relazione non è l’involucro del processo didattico ma la sua sostanza. E questo vale ancora di più dopo il Covid. Non abbiamo imparato dal magistero del Covid quanto sia decisiva la cura della relazione?
Chiudiamo con un’ultima domanda. Quest’anno si tornerà all’esame di maturità secondo il metodo tradizionale, molti studenti hanno paura, ma forse è più corretto parlare di angoscia, ad affrontare questa modalità anche perché hanno vissuto gli ultimi tre anni tra mille difficoltà e fatiche. Quali suggerimenti si sente di dare a questi ragazzi e ai professori che faranno parte delle commissioni d’esame?
Come Le ho appena detto, bisognerebbe avere cura della relazione. Ma questa cura non può abolire la dimensione simbolica della prova, decisiva in ogni processo di formazione. Non esiste formazione senza valutazione. Al tempo stesso mi sforzerei ad emancipare il più possibile la valutazione dal calcolo degli errori per finalizzarla a cogliere il processo di soggettivazione dei contenuti. Dunque ai ragazzi lascerei più libertà nel decidere su quali contenuti affrontare la loro prova di esame, ma preserverei in ogni modo il valore simbolico di questo esame che, come sappiamo, segna nella vita di ciascuno un passaggio fondamentale.
, https://www.orizzontescuola.it/violenza-in-aumento-nelle-scuole-cosa-fare-tradurla-in-un-messaggio-esame-di-maturita-emancipare-la-valutazione-dal-calcolo-intervista-al-professor-recalcati/, Docenti, ,