“Abbiamo il potere di garantire che i nostri alunni non saranno parte del problema ma della soluzione”. Così ha scrittoil 25 novembre Antonio Fundarò sul nostro giornale nella giornata contro la violenza sulle donne. “Cerchiamo, oggi, di far leva su questo grande privilegio che ci è stato dato dall’essere docenti e, principalmente, di essere insegnanti capaci di leggere questa realtà mutevole e incapace di essere all’altezza delle sfide del terzo millennio. Come docenti abbiamo la responsabilità e il privilegio di contribuire a costruire civicamente il tipo di uomini che sfidano la misoginia. Non dobbiamo pretendere fiaccamente che siano solo le scuole famiglie ad insegnare loro il rispetto. Dobbiamo guardare i nostri ragazzi negli occhi e vedere in loro i futuri uomini con il potenziale enorme che hanno in nuce di proteggere ed elevare le donne”.
Spesso gli insegnanti sono i primi a scoprire, a scuola, le violenze subite dalle ragazze e talvolta dalle bambine, fin dalla più tenera età, perché, a scuola, le ragazze trovano persone a cui aggrapparsi, alle quali affidare la speranza di potere uscire da un incubo. Talvolta le bambine lo fanno sapere con un tema o con un disegno. Le ragazze lo fanno confidandosi con l’insegnante che appare loro più sensibile o con il professionista allo sportello psicologico dell’istituto. E spesso vengono fuori storie di violenza domestica. La scuola, con il suo esercito di 8 milioni e mezzo di alunni e di alunne, rappresenta anche per questo motivo il luogo ideale per l’attivazione della necessaria opera di prevenzione della violenza di genere, sul piano culturale ancora prima che sul piano della raccolta delle denunce. Se la scuola perdesse questa occasione – e non la perde – la società intera sarebbe privata di un decisivo strumento nella lotta al sempre allarmante fenomeno della violenza contro le donne.
E’ con questo spirito che Elisabetta Aldrovandi, modenese, porta avanti anche nelle scuole la propria opera di sensibilizzazione sul tema. Garante per la tutela delle vittime di reato per la Regione Lombardia da marzo 2019, Aldrovandi è avvocato e Presidente dell’Osservatorio nazionale sostegno vittime di reato. Specializzata tra l’altro in diritto di famiglia e vertenze endofamiliari, si occupa da anni di vittime di reati. In questa veste ha fondato l’Osservatorio con lo scopo di sollecitare le istituzioni e di proporre modifiche legislative per una maggiore tutela a favore delle vittime di reato. Docente di Criminologia e Vittimologia presso il Limec-SSML di Milano, da anni partecipa alla stesura di disegni di legge ed emendamenti come per esempio quello sulla riforma del rito abbreviato e quello introduttivo del Codice Rosso, a tutela di coloro che subiscono maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale e atti persecutori.
Nella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, il 25 novembre scorso, l’avvocato ha incontrato gli studenti dell’Istituto d’Istruzione Superiore “Carlo Alberto Dalla Chiesa” di Sesto Calende in provincia di Varese. “Parlare a ragazzi poco più che maggiorenni di violenza nelle sue varie forme, di come prevenirla e contrastarla, dell’importanza del rispetto dato e preteso – sottolinea lei – è un’enorme responsabilità”. Nell’occasione Aldrovandi ha tenuto un meeting in collaborazione con l’Associazione Donna Sicura dedicato agli studenti . “Difficile trovare qualcuno che non esprima il suo pensiero di condanna alla violenza sulle donne – ha scritto sulla propria pagina Facebook, in nella stessa giornata – mi stupisce, quindi, vedere come, di fronte a stupri e maltrattamenti, spesso e volentieri si colpevolizzi la vittima per come era vestita, o per non essersene andata dopo il primo ceffone. La realtà, ed è una realtà molto triste, è che molte persone, anche donne, ritengono che una vittima di violenza domestica e/o sessuale sia, in parte variabile, corresponsabile del reato che subisce. Fino a che non supereremo questa mentalità patriarcale, arcaica, cavernicola, fino a che non la si smetterà di considerare la donna come qualcuno (o peggio, “qualcosa”) il cui valore è strettamente interdipendente dall’uomo che ha a fianco. Si chiede mai a un uomo di 40 anni perché non si è sposato o perché non ha figli? Esiste un corrispondente della parola “zitella”?, oppure il maschile della parola “prostituta” (che non è “gigolò”?), per citare due esempi tra mille. Non basteranno trecentosessantacinque 25 novembre all’anno, per estirpare questo cancro metastatico. Per il quale nessuna chemioterapia sarà mai sufficientemente efficace, se non si fa prevenzione quotidiana. Capillare. Senza abbassare la guardia, mai. Perché la violenza è subdola, insidiosa, strisciante. Fa parte del fatto di essere umani. Dobbiamo esserne consapevoli, per poterla combattere. E impedirle di nascere, e crescere, dentro di noi”.
La prevenzione, dunque, è fondamentale, quanto lo è la cultura sulla violenza. La scuola, da parte sua, non si sottrae al compito di educare i nostri ragazzi alla libertà e al rispetto.
Del resto, avvocatessa Elisabetta Aldrovandi, se non si parte da loro, e con loro, la violenza di genere rimarrà probabilmente un cancro incurabile e inestirpabile.
“Io noto che i ragazzi sono molto più avanti ed evoluti di noi per quanto riguarda la libertà sessuale e il vivere la propria identità al di là di quella biologica predeterminata. Però nell’ambito dei rapporti di coppia ravviso delle dinamiche in cui emerge chiaramente l’aspetto della gelosia e della possessività che vanno oltre quel livello minimo tollerabile e accettabile in un rapporto di coppia sano”.
Proviamo a descriverla, questa gelosia. Quand’è che una sana gelosia sconfina – e questo succede sempre di più – in una gelosia malata che conduce spesso a tragici epiloghi?
“Un esempio di gelosia sana è quando, sapendo che la tua compagna esce con un collega o con un compagno di classe, tu dici: puoi andarci ma sappi che questo mi fa star fare male perché sono geloso. La gelosia non è più sana se invece le impedisci di uscire o fai una scenata o hai una reazione aggressiva di fronte alla decisione della tua compagna di avere un’ora di svago con qualcuno che non sei tu. E molte volte si sconfina in questo secondo caso. Nell’ambito dei rapporti sentimentali continua a esserci la preoccupazione di perdere la compagna e invece dovrebbe prevalere l’idea che, se anche esce con un altro, lei, nella vita, ha scelto di stare con me. Si fa fatica a capire tutto questo”.
E da questa difficoltà alla violenza il passo diventa sempre più breve. Cosa fare?
“La violenza sessuale, lo stalking e le altre forme di violenza sono fatti che vanno prevenuti. Se invece ci si limita a inseguirli dopo che sono accaduti non se ne esce. Quindi il primo passo è riconoscere quando si è vittime di violenza. Nei miei interventi tratto fondamentalmente i segnali della violenza, cioè le modalità con le quali si può individuare una personalità violenta. In un video di nove minuti intitolato La forza della vita che vince sulla forza della violenzametto in evidenza come ognuno di noi usa, ogni giorno, tantissima forza positiva. Ma esiste anche una forza che non mira a sorreggerci e sostenerci, ma esattamente il contrario, cioè mira ad annientarci e a distruggerci. È la forza della violenza. Quella che arriva, spesso, da chi dovrebbe proteggerci e amarci. In questo video spiego come prevenire la violenza, quali possono essere i suoi segnali. In questo modo non s’impara soltanto come aiutare una vittima di violenza ma anche a individuarne i segnali. Quando sento pronunciare, dalle donne che sono state vittime di violenza, frasi come: quando mi ha messo le mani al collo pensavo che mi sfidasse, oppure: quando mi puntava la pistola pensavo che scherzasse, mi accorgo che nessuna di loro si sentiva vittima di violenza e allora vuol dire che non c’è proprio cultura sulla violenza. Troppe volte le donne non riescono proprio a interpretarne i segnali. Eppure, se stai con un uomo che ti controlla il cellulare, che ti isola dalle tue amicizie, che ti accusa in continuazione di preferire i tuoi amici a lui, che ti allontana dalla sua famiglia, che ti ostacola sul lavoro, che ti costringe a stare a casa… tu sei già vittima di violenza”.
Perché tanti uomini arrivano a ostacolare la propriadonna sul lavoro o la incentivano a stare a casa?
“Poiché tutto questo consente loro di manipolare la partner, a renderla dipendente da lui. E se lei non lavora difficilmente riuscirà ad allontanarsi. Sono atteggiamenti di classici manipolatori affettivi. Quando si pensa alla violenza domestica, si pensa che coincida con le botte. E infatti tante donne maltrattate dicono: lui non mi ha mai picchiato. Ma se tutti i giorni ti dice: guarda come sei vecchia, non sai fare nulla, non vestirti in quel modo,non vali niente… questa è violenza psicologica, una violenza a tutti gli effetti”.
Succede spesso?
“La violenza psicologica è quella più diffusa in assoluto. Poi è chiaro che occorre saper contestualizzare. Ad esempio, in una coppia un litigio ci può stare. Ma c’è differenza tra i conflitti di coppia, noramli in un rapporto sano, dove occorre anche litigare, e la violenza domestica. La differenza è che, nei conflitti, entrambi nella coppia sono su un piano di parità: la parola dell’uno vale quanto quella della’ltro, non esisste intimidazione o prevaricazione. Nella violenza, la parità non c’è. Cè sempre una parte che sovrasta l’altra, in maniera subdola o violenta. Questa è una differenza basilare, tuttavia la maggior parte delle vittime non la coglie. Ma è fondamentale per capire come bisogna rapportarsi con gli altri: se si sta con una persona che manifesta segnali prevaricatori, la si deve lasciare immediatamente per evitare una digressione violenta delle condotte abusanti.”
E invece si continua a stare insieme…
“E quando, dopo anni, ti ribelli finalmente ad atteggiamenti prevaricatori, a quel punto lui domanda: hai accettato per anni, come ti permetti di farlo adesso? Allora lì c’è bisogno di interventi per tutelare le donne”.
Come ha trovato questi ragazzi? Sono consapevoli del problema?
“Sì, vedo che sono consapevoli. Spesso si avvicinano a me e mi raccontano del controllo di Instagram e dell’account della compagna, della consegna della loro password, per verificare se è online ma non risponde ai messaggi. C’è molto controllo. Questi ragazzi oggi vivono sui social, per cui una delle prassi diffuse è che se incontrano di persona qualcuno che li attrae non chiedono direttamente il numero di telefono. Rintracciano il numero attraverso le amiche di lei e poi la contattano su Instagram. Magari è un nuovo tipo di approccio, un approccio 2.0, tanto per dire. Ma in questo modo manca l’iniziativa che mette alla prova di fronte a un rifiuto, non ci si allena ai rapporti con gli altri. Da ciò possono derivare atteggiamenti stalkerizzanti, comportamenti ossessivi e idealizzanti della persona: non la si conosce ma la si idealizza. Il suo rifiuto determina delle fantasie persistenti su di lei che non corrispondono alla realtà e così si creano delle ossessioni. Si pensi alla storia di quel ragazzo che si è suicidato, raccontata da Le Iene. Non aveva mai avuto una fidanzata, non aveva mai sentito la voce dell’uomo con cui chattava da tempo e che invece pensava fosse una ragazza della quale s’era pure innamorato: capisce a quanto può arrivare il virtuale? Arriva a indurre al suicidio”.
Cosa si è fatto e cosa non si è fatto in tutti questi anni sul piano culturale e quindi anche in ambito scolastico nel diffondere la cultura del rispetto tra uomini e donne?
“Manca una sinergia tra la famiglia, la scuola e tutti gli ambiti in cui i ragazzi esprimono la propria personalità, come lo sport. Quello che viene insegnato a scuola non viene ripetuto a casa o viceversa, a scuola non vengono sottolineati certi concetti. Se il ragazzo va in chiesa, e poi a calcio l’allenatore bestemmia, e crescendo sceglie il calcio invece della chiesa, potrà essere portato ad adeguarsi al contesto che preferisce per non venirne escluso. Ho conosciuto una psicologa che fa educazione al rispetto in seconda primaria. Chiede spesso ai dirigenti scolastici di fare incontri con i genitori, cosa che non avviene mai, perché molte famiglie per vari motivi non sono d’accordo. Quando c’è un contrasto educativo è chiaro che salta tutto”.
La donna è vista spesso come corresponsabile della violenza subita. Come mai persiste ancora questa mentalità che ci riporta indietro nella storia?
“E’ la vittimizzazione secondaria. La donna viene considerata complice della violenza che ha subìto e questo è frutto di una mentalità secondo cui si pensa che se la sia cercata. Del resto lo sentiamo spesso: insomma, ti violentano ma vestita così che cosa pretendi?”
Servirebbe un inasprimento delle pene o servirebbe dare maggiore certezza alle pene già previste?
“Più che altro, la pena deve essere adeguata al reato commesso. Il fatto è che con le leggi attuali anche per reati gravi si possono trascorrere pochi mesi in carcere e ottenere misure alternative. Per questo, sostengo la necessità che la pena sia proporzionata alla gravità del fatto commesso e riabilitativa. Se un persona non viene riabilitata, quando avrà scontato la pena potrà cadere facilmente in una recidiva, specie nei reati a sfondo sessuale e nello stalking. L’approccio perdonistico che tende a evitare non solo il carcere ma anche qualsiasi tipo di sanzione non va bene, perché la sanzione è educativa. Anche nei confronti dei minori andrebbe adottato questo approccio. Un atto vandalico, per esempio, non andrebbe ignorato come qualcosa di non grave, ma andrebbe affrontato con una sanzione educativa diretta a risarcire il danno causato. Non serve limitare la libertà, ma sono certa che qualche centinaio di ore di lavori socialmente utili, da impiegare di sabato e domenica, ridurrebbero notevolmente le possibilità di recidiva”.
, 2022-11-30 07:20:00, “Abbiamo il potere di garantire che i nostri alunni non saranno parte del problema ma della soluzione”. Così ha scrittoil 25 novembre Antonio Fundarò sul nostro giornale nella giornata contro la violenza sulle donne. “Cerchiamo, oggi, di far leva su questo grande privilegio che ci è stato dato dall’essere docenti e, principalmente, di essere insegnanti capaci di leggere questa realtà mutevole e incapace di essere all’altezza delle sfide del terzo millennio. Come docenti abbiamo la responsabilità e il privilegio di contribuire a costruire civicamente il tipo di uomini che sfidano la misoginia. Non dobbiamo pretendere fiaccamente che siano solo le scuole famiglie ad insegnare loro il rispetto. Dobbiamo guardare i nostri ragazzi negli occhi e vedere in loro i futuri uomini con il potenziale enorme che hanno in nuce di proteggere ed elevare le donne”.
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