Dietro le quinte di X Factor: «Noi, 12 finalisti nella bolla. Sul palco ci torna il sorriso»

Dietro le quinte di X Factor: «Noi, 12 finalisti nella bolla. Sul palco ci torna il sorriso»

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di Walter Veltroni

I ragazzi, l’ansia, la musica. Nel loft si scherza e si improvvisa: il lockdown ci ha rubato il tempo. I giudici: sono veri

Ne hanno contattati settemila, visti tremilacinquecento, incontrati cinquecentocinquanta, portati davanti ai giudici centotrenta, selezionati per i bootcamp in quarantotto. Ora sono rimasti in dodici. Sono i ragazzi italiani che, dopo aver passato tutti questi esami, potranno, da stasera, partecipare alle esibizioni live di X Factor. Diversamente da altri programmi televisivi, nei quali è richiesto tassativamente di non saper far nulla e la virtù principale che consente di andare avanti è la furbizia, questo programma, da sempre, scava nelle stanze dei ragazzi italiani, cerca il talento nascosto, lo valorizza, lo plasma. Dietro il successo non c’è la sagacia dell’inganno, ma la fatica di anni di tentativi, di musica fatta cantando sopra i dischi, suonando nel garage o per strada.

Ho voluto incontrarli uno ad uno, questi dodici ragazzi, e conoscere le loro storie. Inizio da Lucrezia, classe 1996: «Ho iniziato a cantare a due anni. Seguivo mia sorella più grande che voleva entrare nel coro dello Zecchino d’Oro. Lei si era innamorata di un ragazzino che cantava lì e voleva stargli vicino. Io seguivo nei corridoi i selezionatori e cantavo le stesse canzoni di Rachele. I mei genitori sono psichiatri. In casa mia la musica non si sentiva mai. Non c’era radio né televisione. Con mia mamma viviamo in campagna. Anzi vivevamo, perché ora sono a Milano. Avevo bisogno di uscire da quella condizione hippie, piena di libertà, di rapporto con la natura e con il tempo. Ma che alla fine mi sembrava, è un paradosso, una prigione. A scuola mi sentivo sempre un outsider. I miei compagni parlavano di cose, musica e televisione, che io non conoscevo. Venire dalla campagna bolognese a Milano per vivere e suonare per me è stato come conquistare la modernità. Ero separata dal mondo, volevo entrarci dentro. Vivo il rapporto con il tempo con la sensazione che il mio futuro sia in ritardo, che gli anni del lockdown sottratti mi abbiano impedito di sbagliare, di conquistare, di scoprire».

Ritrovarsi

Ma molti di questi ragazzi mi dicono che, in fondo, del lockdown hanno un po’ nostalgia

. Come Linda, del 2003, una delle più piccole del gruppo, ma una delle personalità più intense, come si capisce dal suo modo di cantare. «Se ripenso a quel periodo ritrovo molta pace. Era molto accogliente, lo stare da soli. Per me era la prima volta. Mia madre era fuori Italia e mio padre costantemente al lavoro. In casa c’era sempre il sole, ho visto arrivare la primavera, con la sua luce. Mi è servito a rimettere a posto delle cose. Ho un tatuaggio che esprime nostalgia. Ho diciannove anni e ho nostalgia. Degli anni dell’infanzia e anche del liceo. Ho nostalgia del tempo in cui non sapevo cose che non avrei voluto sapere. X Factor è certo una piccolissima cosa nella grande confusione del mondo. Ma io mi sento accolta, qui. E valutata per i miei meriti o demeriti. Null’altro. Accolta, come sa fare la mia fidanzata, che mi ha scritto delle lettere, non solo dei messaggi, capaci di infondermi tranquillità. Nella vita mi piace sentirmi sicura. E solo la dolcezza nei toni degli altri ti fa stare così».

Matteo Siffredi, nato nel 2001, è nato e cresciuto a Villanova, in Liguria. Un paesino di duemila anime. A scuola non andava bene, è stato più volte bocciato. «Io volevo fare musica, nient’altro. Solo quando stavo nel mio garage a suonare mi sentivo bene. Ho fatto dei casini, in quel periodo: la scuola, brutte amicizie. Quando ho capito che mi avrebbero preso in questo programma ho telefonato ai miei genitori. Era il mio modo per scusarmi e ringraziarli. Mia madre ha molto sofferto quando ho lasciato il garage, il paese e sono venuto qui a Milano. Aveva paura mi perdessi, invece mi sono ritrovato».

Una radio da Seattle

I Tropea, quattro ragazzi milanesi nati all’inizio degli anni novanta

, sono figli di quella meravigliosa sensazione che è il «comune sentire» tra ragazzi: quando scopri che a un altro piacciono le stesse cose che piacciono a te. «Noi sentivamo la stessa musica, ci sintonizzavamo su una radio che trasmetteva da Seattle. Abbiamo passato una quantità di ore infinita a suonare e a fare meme, di cui abbiamo scoperto la forza comunicativa. La “memetica” è diventata per noi una modalità di relazione con gli altri. Suonavamo in un centro sociale, il “Collettivo Lume” e ci sono sempre piaciuti gli spazi autogestiti. Lì c’è un grande fermento culturale, una gran voglia di scoprire e inventare. Abbiamo fatto tanta gavetta, e non perderemo il contatto con il mondo reale, vada come vada, qui. Ci sentiamo figli di questo tempo di ansia collettiva. Ma non ci vogliamo far rubare il futuro».

I Disco Club Paradiso sono nati per divertire e per divertirsi. Sono anche loro dei millennials, quattro ragazzi della provincia di Bologna. Anche qui galeotta è stata la scuola, almeno per i due soci fondatori. «Il nome lo abbiamo deciso pensando che in paradiso c’è un sacco di gente che magari si annoia e allora ci siamo inventati un Disco club dove farli ballare. Noi vogliamo far festa, siamo davvero così. Non siamo finti. Noi esageriamo perché siamo esagerati. E qui vogliamo imparare a fare quello che vogliamo fare. Per noi la felicità è un progetto, è un posto dove andare».

Gli Omini sono tre ragazzi, due sono fratelli, che hanno appena finito la scuola. Hanno compiuto diciotto anni durante il lockdown, pausa che hanno trascorso a suonare, suonare, suonare. «Collaboriamo da sette anni. Eravamo davvero bambini. Abbiamo fatto tanti concerti. Avuto pochi successi e tante delusioni. Una volta a Brescia andiamo a suonare in un bar. Prima di noi si esibiva una band di cover dei Nirvana. Si erano portati i loro amici. Appena hanno finito sono andati via tutti. Sono rimaste due persone e noi abbiamo suonato lo stesso. Qui nel loft, dove viviamo tutti, ci divertiamo e la sera improvvisiamo delle jam session. È la prima volta fuori casa, è bellissimo».

Beatrice è del 1998. Palermitana, ha imparato a scrivere canzoni dilatando il precetto paterno che la spingeva a fare i riassunti dei libri che leggeva. «A casa c’era un pianoforte. Quando è morto mio zio, al quale volevo molto bene, non riuscivo a capire perché, diversamente dagli altri, non riuscissi a piangere. Quel giorno mi sono messa al pianoforte e ho tirato fuori lì tutto il dolore che avevo dentro. Mio padre insegna diritto penale, ma aveva una radio chiamata Rock ‘n Rolla. Forse anche per questo io sono un po’ esagerata. Lo sono sempre stata, per il modo in cui mi vestivo, parlavo di sessualità. A scuola per questo soffrivo, ma non accettavo la situazione. Perché, facendo le stesse cose, il mio compagno di banco era considerato un playboy e io invece una puttana? Allora avevo paura di essere fragile e a scuola stavo male. Ho cambiato istituto e tutto è cambiato. Molto dell’apprendimento è legato all’atmosfera, all’accoglienza. Sono venuta due volte a Milano, la prima sono scappata. Non ero pronta. Poi sono tornata e mi sono accorta che quello che a Palermo era considerato strano qui era normale. Mi sono sentita, di nuovo, accolta. Il nostro futuro è attaccato da tutte le parti ma io vivo l’ansia, che è dentro di me, come un motore per superarla».

Anche Gaia, in arte Dadà, è meridionale, di Napoli. «A me piace la world music ma a Napoli non serve Spotify, basta aprire una finestra». La musica di Gaia unisce tradizione ed elettronica, classici napoletani e canzoni brasiliane. «Io canto in inglese, in italiano. Ma sogno in napoletano. Lì ci sono le cose ancestrali. Ho suonato la prima volta per strada, a 12 anni, a Palinuro. E poi ho continuato, ovunque. Sono curiosa dei suoni del mondo. Da bambina facevo impazzire i miei genitori cantando sul rumore della freccia in auto, del treno, dei bicchieri a tavola. Poi il lockdown mi ha consentito di unire tante cose diverse e di creare qualcosa che riconosco come mio. Qui mi sento accolta. Ho studiato psicologia e so quanto sia importante. L’anno scorso ho sofferto di attacchi d’ansia e di crisi di panico. Su questo palco, in tv, ho visto sul mio volto un sorriso che non sapevo di avere più».

Tenco e Dalla

Matteo Orsi, nato nel 1997

, invece non ha frequentato palchi e strade. È passato dalla sua stanza di liceale in cerca di un modo per raccontare il suo mondo all’arena di X Factor, che ha incantato con una versione intensa di En e Xanax di Samuele Bersani. «Ascoltavo Tenco, Lucio Dalla, mi piaceva la musica che metteva al centro la parola, che avesse qualcosa dentro, non fosse pura confezione di suoni. Sul palco ho pianto, nonostante di solito non lo faccia, perché quando ho visto tutti in piedi ho pensato alla fatica e alla solitudine di quella stanza in cui scrivevo le mie cose. Con la certezza che, per la mia timidezza, non avrei mai avuto il coraggio di espormi. Avevo paura che la mia intimità non fosse adatta a un contesto più largo. E che la mia timidezza non fosse televisiva. I mei genitori, sapendo questo, temevano che questa macchina potesse ingoiarmi. Invece mi ha dato forza e sicurezza, mi ha messo alla prova, come è giusto. E ce l’ho fatta. Ora ho autostima per la mia emotività».

Jacopo, in arte Iako, nonostante sia del 1995, ha vissuto tra Venezia e Londra. «Mi piace mescolare, contaminare. Nella musica che eseguo c’è il cantautorato italiano, Battiato in primis, e la musica elettronica che ho ascoltato ed eseguito in tanti locali inglesi. Sono un tipo silenzioso, non faccio rumore, non parlo sempre. Assomiglio alla mia musica. Curo l’immagine perché amo anche le altre arti performative come il teatro, la moda. Sento il peso dell’ansia da fine di tutto. Ma trovo nella musica il mio modo di resistere e di combattere. La musica mi fa dire la mia, in questo grande rumore. Qui non so come andrà, ma a me interessa la longevità di quello che faccio. Mi interessa seminare, non ho fretta di raccogliere».

I Santi Francesi sono due ragazzi di Ivrea, la città dell’utopia di Adriano Olivetti. «A dodici anni sono salito sul palco di una orrenda discoteca. Ero terrorizzato. Una volta là sopra ho deciso che non sarei mai sceso. Avevamo formato un gruppo di cinque. Poi abbiamo litigato e siamo rimasti in due. Facciamo una musica particolare, indefinibile. Ho sentito negli auricolari che uno dei giudici l’ha chiamata Hard-Pop, forse ha ragione». In effetti la bellissima versione di una vecchia canzone dei Corvi, roba dei miei tempi, si attaglia bene a questa definizione. «Viviamo l’ansia di un tempo in cui ci sentiamo spettatori, non protagonisti. Ora siamo qui, ma non perderemo la testa. Facciamo musica da dieci anni, centinaia di concerti. Abbiamo un solo obiettivo: mangiarci. Sappiamo che questa è una bolla, ma è importante per il nostro futuro. E io voglio mangiare con la passione della mia vita, la musica».

Giorgia, in arte Joelle, è piccola e tosta. È nata nell’anno in cui sono cadute le torri gemelle. Ha cominciato presto ad andare in giro per bar e locali chiedendo di cantare. «Quando sono entrata nel loft, dove ora mi diverto molto, ho fatto una videochiamata con mia madre e mio fratello e abbiamo pianto insieme. Era la prima volta che ero lontana da loro. Studio Beni Culturali, so che è bene avere più porte aperte, ma il mio sogno è cantare, solo cantare. E sono qui per apprendere, per capire. Quando sono sul palco è come se tutto si fermasse, attorno a me. È un attimo sospeso. So che finirà, ma ora è bellissimo».

I Giudici

Dice Fedez

: «Questi ragazzi hanno voglia di apparire come sono. Non fingono, ad esempio, di frequentare culture musicali che in verità non gli appartengono. Noi stiamo attenti a non giocare con la loro emotività. Sanno che XFactor non ti crea una carriera, non è l’intera storia. È un raggio di sole che passa e hanno ragione a cercare la sua luce». RRkomi aggiunge: «Farsi male nella musica è normale, forse anche necessario. Anche io ci sono passato. È dura, specie se sei solo. Noi ci sforziamo di far capire come funziona questo mondo e di accompagnare i ragazzi. Stando molto attenti a non prescindere dalla loro identità, a non costruirne un’altra». Per Ambra questi ragazzi sono più strutturati di quelli del passato. «Qui non si arriva per caso. Talento o fatica, o tutti e due. Quando toccò a me, da ragazza, non avrei saputo rispondere alla domanda “Che lavoro fai?”. Loro hanno diritto di dire che sono dei cantanti. Noi li proteggiamo dalle durezze esterne, dai giudizi sprezzanti e semplificatori dei giornali o dalle cattiverie spesso gratuite dei social. Cerchiamo la loro profondità e la tuteliamo».

Dargen: «Mi piace parlare di loro e con loro. Noi ci sinceriamo che siano pronti. E sono molto più coriacei di quanto sembri. Ho avuto dubbi su un concorrente ma poi ci ho parlato e ho capito che era nella condizione di conoscere lo stress di questa gara che consente per due mesi di vivere il mondo della musica al livello professionale giusto e non da soli. E se nella vita si chiudono delle porte è comunque una fortuna. Sono storie da raccontare. In fondo il nostro mestiere». Francesca Michielin in passato ha vinto la gara e ora è la prima conduttrice di X Factor. Un altro piccolo soffitto di cristallo… «Io avevo sedici anni. Ero indisciplinata perché mi difendevo da tutto e da tutti. Qui ho messo il primo mattone della mia carriera. Essere donna, in questo mondo, è davvero difficile. Una rottura di scatole. È una battaglia, sempre. E qui, forse, ho imparato ad ascoltare gli altri e a difendere la mia identità e le mie idee».

Sono tornate cinque parole, in questi incontri. E cominciano tutte con la lettera A: accoglienza, ansia, autostima, autonomia, ambizione. Le cinque A di XFactor.

27 ottobre 2022 (modifica il 27 ottobre 2022 | 07:19)

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, 2022-10-27 06:32:00, I ragazzi, l’ansia, la musica. Nel loft si scherza e si improvvisa: il lockdown ci ha rubato il tempo. I giudici: sono veri, Walter Veltroni

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