Zelensky entra a Kherson: «L’inizio della fine della guerra». La gioia della piazza: «Liberi»

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di Andrea Nicastro

Dentro la città. I racconti: i russi cercavano di farci il lavaggio del cervello

DAL NOSTRO INVIATO

KHERSON – Sulla piazza della gioia di Kherson compare anche Volodymyr Zelensky. Il presidente in verde militare, il condottiero che non ti aspetti, l’ex attore che ha barattato il taxi americano verso l’esilio con le armi per difendere il suo Paese, non poteva mancare. Zelensky è stato a Bucha dopo aver respinto i russi da Kiev, è stato a Kharkiv e Izyum dopo averli cacciati dall’Est, l’abbandono di Kherson da parte dei russi è un’altra sua grande vittoria. La prima al Sud. «È l’inizio della fine della guerra», afferma in piazza.

Le truppe di Putin sono scappate sull’altra sponda del fiume Dnipro, ma Kherson è ancora sulla loro linea di tiro. Prima e dopo l’arrivo del presidente in città, l’artiglieria ucraina ha bombardato le postazioni russe oltre il fiume. Una dozzina di colpi prima dell’arrivo altrettanti alla partenza. Bisognava evitare che riuscissero a mandare un drone o a bombardare la piazza. Sarebbe stata una strage. Non solo era a rischio il presidente, ma anche migliaia di abitanti che per il terzo giorno consecutivo si sono riversati qui.

Gli abitanti rimasti a Kherson vengono per incontrarsi dopo tanti mesi passati il più possibile chiusi in casa, a testa bassa. Vengono per telefonare visto che qui c’è l’unica antenna provvisoria della città piazzata proprio davanti al palazzone che fu del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Vengono per far giocare i bambini, per cantare, per far prendere aria ai vestiti gialli e blu che facevano insospettire i russi. Vengono soprattutto per convincersi che ora a Kherson si può vivere senza paura.

«Ci si abitua a tutto – dice Olena, mentre vaga sulla piazza in cerca di qualche linea sul telefonino -, ma non è vita andare a dormire senza sapere se qualcuno all’alba sfonderà la tua porta per portarti via. Bastava una maldicenza da parte di un collaborazionista, bastava rispondere in ucraino e finivi in “cantina” come chiamavano le loro prigioni. Ci si abitua, ma ogni notte che passa da quando se ne sono andati, dormo un po’ di più».

«Sono rimasto nove mesi nella dacia dei miei genitori, sull’isola Korabelny – racconta Roman, tassista -. Senza lavorare non avevo soldi, così per mangiare ho coltivato l’orto e ho pescato. I russi si facevano vedere pochissimo. Importante era non incontrarli. A me è andata bene. Adesso finalmente sono uscito dalla prigione del giardino e sono venuto in città, libero. Cammino e piango di gioia».

Vladimir, in piazza con moglie e bimba piccola, racconta invece di chi non è stato altrettanto fortunato. «La maestra d’asilo della mia bambina si chiama Ylena Naumo. E’ giovanissima e si è sempre divertita a fare video su TikTok. Ne ha fatto uno patriottico, a favore dell’Ucraina. E’ stata ingenua, ma non era una tiktoker non una partigiana. Voleva solo divertirsi. I russi hanno scoperto il video on line e sono venuti a prenderla a casa. Una settimana “in cantina”, poi due giorni a casa e di nuovo arrestata. Non bastava accettarli senza combattere, non si poteva neanche pensare».

«Io non conosco nessuno che abbia fatto da informatore per le nostre Forze Armate, ma evidentemente dovevano essercene perché più volte le basi dei russi sono state centrate in pieno». Diciannove anni, ottimo inglese, Andrei Kirsanov, spiega come una città in mano russa possa vivere senza sapere quel che le sta succedendo. Andrei lo chiama «lavaggio del cervello». «Credo sia una questione generazionale. I miei genitori hanno 46 e 44 anni e ci sono cascati in pieno. Loro non guardano i social come noi giovani, ma la tv. Da marzo, quando sono arrivati i russi, potevano vedere solo le trasmissioni di Mosca. Così giorno dopo giorno sono arrivati a convincersi che le stragi di Bucha le abbiano commesse gli ucraini e che Mariupol l’abbiano distrutta quelli della Brigata Azov. Oggi siamo venuti assieme qui in Piazza della Libertà e quando mia madre ha visto Zelensky da lontano ha esclamato: “da qui non sembra un drogato”. Hanno creduto a tutto. E sono bastati 8 mesi di occupazione».

E il referendum? I tuoi genitori hanno votato per “rendere eternamente russa Kherson?

Andrei ride. «Quello non era un referendum. Non si sapeva neanche dove andare a votare. Era proprio una sceneggiata. E’ capitato a dei miei amici che passassero i soldati casa per casa e allora che facevi? Votavi no? A me è capitato di trovare un banchetto nel bel mezzo del mercato. Una signora registrava i documenti e squadernava la scheda sul tavolo, davanti a lei, senza neppure far finta di non guardare. Al referendum hanno partecipato i filorussi, i collaborazionisti e tanti poveri senza saperlo».

Cosa vuol dire senza saperlo?

«Quando i russi distribuivano gli aiuti umanitari chiedevano il passaporto e registravano i dati. Un sacco di persone devono aver votato sì, ma solo perché hanno mangiato le loro aringhe».

Zelensky dice già che anche a Kherson ci sono state le atrocità scoperte in altre aree occupate. Parla di 400 «crimini di guerra documentati». Le notizie arriveranno, di sicuro, a giorni. Julia, dal suo banco nel piccolo centro commerciale senza elettricità a lato della piazza dice: «A noi negozianti non è successo nulla, bastava che accettassimo i rubli. Ma so che ci sono stati tanti morti, tanti. Solo che – si porta le dita alla bocca – nessuno poteva parlare. Tutti zitti come pesci, altrimenti finivamo male anche noi».

14 novembre 2022 (modifica il 14 novembre 2022 | 22:49)

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, 2022-11-14 22:14:00, Dentro la città. I racconti: i russi cercavano di farci il lavaggio del cervello , Andrea Nicastro

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