Il russo Ildar Abdrazakov alla prima della Scala: «Il teatro ha saputo difendere l’opera russa. La vera arte va esaltata»

di Pierluigi Panza

Il basso russo il 7 dicembre salirà per l’89ma volta sul palco del Piermarini

Lo spietato zar Boris è l’affascinante basso russo Ildar Abdrazakov e il 7 dicembre salirà per l’89ma volta sul palco del Piermarini. Già protagonista dell’Attila e Banko nel Macbeth dello scorso anno, Abdrazakov è alla sua settima «prima» della Scala, la prima in cui canterà nella sua lingua. Nato nel 1976 a Ufa, «artista onorato della Russia» nel 2021, si avvicina sereno al giorno di Sant’Ambrogio in un clima dove sembra fugato il timore di contestazioni e superate le incomprensioni con il console ucraino. «Ringrazio la Scala di non aver tolto questa opera russa dal cartellone, come invece sta avvenendo in altri teatri», dichiara Abdrazakov, che fa proprio un concetto espresso anche dal regista Kasper Holten: «In un momento come questo ci vuole più arte e non meno arte».

Cosa può essere utile per superare questa contingenza?
«Le persone ci devono mettere tutto il loro spirito per dare qualcosa di più alla gente di tutto il mondo. Ricordo anch’io il celebre passo in cui Dostoevskij afferma che la bellezza salverà il mondo. Ecco, credo che l’arte possa salvare il mondo».

Quindi, ricorda un detto attribuito a Winston Churchill…
«Churchill diceva: ci sono i soldi per i soldati, i soldi per i macchinari, ma perché solo lo 0,5% per la cultura? Per che cosa combattiamo allora?».

Figlio d’arte, suo fratello, Askar è un basso, sua madre una pittrice e suo padre (deceduto) un regista: è stato aiutato dalla famiglia?
«È stata soprattutto la mia maestra ad aiutarmi, che mi indirizzò al canto».

La vittoria nel 2000 al Concorso Tv Maria Callas di Parma lo portò al debutto alla Scala nel 2001.
«Mi tremava il ginocchio sinistro, me lo ricordo. Esordii in La Sonnambula di Bellini con direzione di Maurizio Benini».

Poi giunse la chiamata di Riccardo Muti per il Moïse et Pharaon di Rossini e via via sino all’Attila con Riccardo Chailly…
«I maestri italiani non ti fanno passare una battuta, sono perfezionisti. Tutti mi hanno consentito di creare grandi personaggi e affinare la musicalità».

Spesso il basso vive l’eterna vita del subalterno al tenore…
«Non sono ruoli minori, sono sempre grandi personaggi. Quando entro sul palco cerco di vivere la vita del protagonista. Faccio sempre ruoli importanti, da Filippo II nel Don Carlos a Banko in Macbeth. Ho interpretato anche Don Giovanni e Leporello: dei due preferisco il primo».

Protagonista in Attila e ora in Boris Godunov: come vede i due ruoli a confronto?
«In Boris prima vengono le parole poi canto; in Verdi prima il canto e poi parole. Cerco sempre di entrare nell’interiorità del personaggio. In ciascuno di questi cattivi c’è anche un’anima che li interroga, sia nell’Attila di Livermore che nel Boris di Holten. Nel Boris canterò sempre con un bambino a fianco, il fantasma dello zarevic (non ci sono video, alle spalle, ndr, ci sarà un gigantesco rotolo di carta con calligrafia di Puskin): questo mi aiuterà a trovare le reazioni giuste sul palcoscenico. Poi canto nella mia lingua e oggi sono il cantante più felice del mondo».

Canterà la versione detta Ur-Boris, quella del 1869 che non venne accettata da Teatro di San Pietroburgo.
«Sono stato io a portare la partitura a Chailly ai tempi dell’Attila: sapevo che aveva fatto da assistente ad Abbado nel 1979».

In Russia lei ha una fondazione per sostenere i giovani…
«Dal 2018 la Fondazione Abdrazakov organizza brevi festival per fare cantare giovani su un grande palcoscenico. Io cerco di migliorarli nello stile».

Lei è apparso in film, serie tv e in televisione: sono mezzi utili alla lirica?
«Penso di sì. I giovani giudicano la lirica noiosa, ma quando alcuni vedono il mio nome sulle locandine vengono allo spettacolo perché sono quello che hanno visto in tv». Per fare Boris ha perso otto chili rispetto allo scorso anno. Lo rivedremo in primavera con Les contes d’Hoffmann di Offenbach.

22 novembre 2022 (modifica il 22 novembre 2022 | 17:56)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

, 2022-11-22 20:55:00,

di Pierluigi Panza

Il basso russo il 7 dicembre salirà per l’89ma volta sul palco del Piermarini

Lo spietato zar Boris è l’affascinante basso russo Ildar Abdrazakov e il 7 dicembre salirà per l’89ma volta sul palco del Piermarini. Già protagonista dell’Attila e Banko nel Macbeth dello scorso anno, Abdrazakov è alla sua settima «prima» della Scala, la prima in cui canterà nella sua lingua. Nato nel 1976 a Ufa, «artista onorato della Russia» nel 2021, si avvicina sereno al giorno di Sant’Ambrogio in un clima dove sembra fugato il timore di contestazioni e superate le incomprensioni con il console ucraino. «Ringrazio la Scala di non aver tolto questa opera russa dal cartellone, come invece sta avvenendo in altri teatri», dichiara Abdrazakov, che fa proprio un concetto espresso anche dal regista Kasper Holten: «In un momento come questo ci vuole più arte e non meno arte».

Cosa può essere utile per superare questa contingenza?
«Le persone ci devono mettere tutto il loro spirito per dare qualcosa di più alla gente di tutto il mondo. Ricordo anch’io il celebre passo in cui Dostoevskij afferma che la bellezza salverà il mondo. Ecco, credo che l’arte possa salvare il mondo».

Quindi, ricorda un detto attribuito a Winston Churchill…
«Churchill diceva: ci sono i soldi per i soldati, i soldi per i macchinari, ma perché solo lo 0,5% per la cultura? Per che cosa combattiamo allora?».

Figlio d’arte, suo fratello, Askar è un basso, sua madre una pittrice e suo padre (deceduto) un regista: è stato aiutato dalla famiglia?
«È stata soprattutto la mia maestra ad aiutarmi, che mi indirizzò al canto».

La vittoria nel 2000 al Concorso Tv Maria Callas di Parma lo portò al debutto alla Scala nel 2001.
«Mi tremava il ginocchio sinistro, me lo ricordo. Esordii in La Sonnambula di Bellini con direzione di Maurizio Benini».

Poi giunse la chiamata di Riccardo Muti per il Moïse et Pharaon di Rossini e via via sino all’Attila con Riccardo Chailly…
«I maestri italiani non ti fanno passare una battuta, sono perfezionisti. Tutti mi hanno consentito di creare grandi personaggi e affinare la musicalità».

Spesso il basso vive l’eterna vita del subalterno al tenore…
«Non sono ruoli minori, sono sempre grandi personaggi. Quando entro sul palco cerco di vivere la vita del protagonista. Faccio sempre ruoli importanti, da Filippo II nel Don Carlos a Banko in Macbeth. Ho interpretato anche Don Giovanni e Leporello: dei due preferisco il primo».

Protagonista in Attila e ora in Boris Godunov: come vede i due ruoli a confronto?
«In Boris prima vengono le parole poi canto; in Verdi prima il canto e poi parole. Cerco sempre di entrare nell’interiorità del personaggio. In ciascuno di questi cattivi c’è anche un’anima che li interroga, sia nell’Attila di Livermore che nel Boris di Holten. Nel Boris canterò sempre con un bambino a fianco, il fantasma dello zarevic (non ci sono video, alle spalle, ndr, ci sarà un gigantesco rotolo di carta con calligrafia di Puskin): questo mi aiuterà a trovare le reazioni giuste sul palcoscenico. Poi canto nella mia lingua e oggi sono il cantante più felice del mondo».

Canterà la versione detta Ur-Boris, quella del 1869 che non venne accettata da Teatro di San Pietroburgo.
«Sono stato io a portare la partitura a Chailly ai tempi dell’Attila: sapevo che aveva fatto da assistente ad Abbado nel 1979».

In Russia lei ha una fondazione per sostenere i giovani…
«Dal 2018 la Fondazione Abdrazakov organizza brevi festival per fare cantare giovani su un grande palcoscenico. Io cerco di migliorarli nello stile».

Lei è apparso in film, serie tv e in televisione: sono mezzi utili alla lirica?
«Penso di sì. I giovani giudicano la lirica noiosa, ma quando alcuni vedono il mio nome sulle locandine vengono allo spettacolo perché sono quello che hanno visto in tv». Per fare Boris ha perso otto chili rispetto allo scorso anno. Lo rivedremo in primavera con Les contes d’Hoffmann di Offenbach.

22 novembre 2022 (modifica il 22 novembre 2022 | 17:56)

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, Pierluigi Panza

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